Tutelare la povertà con misure universali di sostegno economico non è per i Governi una preoccupazione recente ma si è manifestata già molti secoli fa, nel periodo in cui la Comunità-Stato cominciava ad estendere le sue competenze oltre i settori primari (difesa, giustizia, tesoro, ordine pubblico ecc…). Due sono gli “assi” che determinano la capacità di intervento dello “Stato”: una organizzazione amministrativa che “funzioni” ed un sistema di tassazione “efficace”. Nel merito, se i primi approcci sono aiuti definibili variamente “in natura”, abbastanza velocemente si passa ad aiuti “economici”.
Sicuramente la Gran Bretagna è tra le prime “nazioni” che si dota di una legge “contro la povertà”, già nel XVI secolo, la cosiddetta “Poor law” (Legge sui poveri) per affrontare la povertà e le sue conseguenza sociali, poi perfezionata, nel 1795, con la creazione dello “Speenhamland”, provvedimento destinato non solo ai “poveri assoluti” ma anche, diremmo oggi, ai “poveri relativi”: salariati in condizioni più disagiate, con beneficio distribuito in rapporto all’andamento del prezzo del pane ed al numero di figli da mantenere e concesso sul presupposto della “residenza”, dovendo essere data prova di iscrizione al registro parrocchiale.
Coeve anche le critiche all’intervento dello “Stato” con provvedimenti di sostegno al reddito: da Thomas Malthus che osserva come: ”una generalizzazione dell’aiuto pubblico ai poveri ha come conseguenza che questi lavorano e risparmiano meno, si sposano più̀ giovani e hanno più̀ figli, e che il prezzo dei beni che consumano aumenta, riducendo così il salario reale.”, a Ricardo, per il quale: “con un reddito di base i poveri sarebbero stati tentati di lavorare di meno, provocando un ulteriore calo della produzione alimentare e scatenando la rivoluzione anche in territorio inglese.”.
Questi primi interventi possono essere catalogati oggi nella categoria del “Reddito minimo condizionato”, una provvidenza economica concessa selettivamente ai soli poveri che superano la “prova dei mezzi” (vale a dire, mutatis mutandis “la prova della povertà”), cioè alla verifica della mancanza sostanziale di reddito e patrimonio. Un percorso, quello del “Reddito minimo condizionato” come misura universale di intervento contro la povertà che attraverserà i secoli con diverse platee, misure e soluzioni: il Regno Unito sin dal 1948 si doterà infine di un elemento strutturale di lotta alla povertàà tramite un “reddito minimo condizionato”, ad esso seguiranno alcuni Stati dell’Europa continentale e poi, nel tempo, tutti gli altri, salvo la Grecia e l’Italia, dove giungerà ad essere oggetto di soluzioni sperimentali solamente dalla metà degli anni novanta del secolo scorso e di soluzioni universali solo negli ultimi anni.
Ma nel XIX secolo si affacciano però già nuove teorie, più radicali, che vedono l’interesse degli studiosi a ricercare soluzioni più universali di sostegno al reddito (ed indirettamente di lotta anche alla povertà), e cioè quelle che ipotizzano un “Reddito di base”, ovvero un “Reddito di Cittadinanza”, non legato alla “prova dei mezzi”, ma ad un processo di solidarietà e compartecipazione alla ricchezza nazionale collettivamente intesa.
Uno degli antesignani è Thomas Paine, che nella sua opera del 1795, intitolata “La giustizia agraria”, parte dall’idea che l’appropriazione dei suoli a proprietà privata avesse alterato la “dotazione naturale” di ogni essere umano e che quindi era necessario che ad ogni uomo senza terra fosse dato un risarcimento dalla società, una “dotazione universale”, a compensazione della perdita dell’uso collettivo della terra, la cui proprietà era stata carpita da chi la lavorava, da cui scaturisce la proposta originale della: “creazione di un Fondo Nazionale, dal quale ricavare la somma di quindici sterline da pagare ad ogni persona che abbia compiuto ventuno anni di età, come un indennizzo parziale per la perdita della propria eredità naturale, a seguito dell’introduzione della proprietà terriera; ed anche la somma di dieci sterline all’anno, per tutta la vita, ad ogni persona in vita a partire dall’età di cinquant’anni, e a tutti coloro che arrivino a compiere quell’età“.
Ma perché tutto questo interesse per la povertà? Perché è chiaro sin da allora a questi studiosi che la povertà può avere enormi conseguenze sociali ma non solo per chi è povero: per tutti. Destabilizzazione di Stati (pensiamo alla primavera araba); Migrazioni; conseguenza o causa della diminuzione della democrazia (pensiamo al Venezuela) sono i più evidenti. Quindi la povertà “degli altri” interessa tutti, perché ha conseguenze per tutti, non solo per chi è in stato di deprivazione, cosicché è interesse di tutti preoccuparsene.
Un altro studioso che prosegue l’analisi di un “Reddito di base” è il belga Joseph Charlier: nella sua opera del 1848, intitolata “Solution du problème social ou constitution humanitaire, basée sur la loi naturelle, et précédée de l’exposé de motifs”, egli osserva che l’essere umano nasce con un diritto primario: il diritto alla vita. La violazione di questo diritto di natura consiste nel sostituirsi dell’uomo a Dio, che diede nello stato di natura, a tutti gli uomini, il diritto inalienabile alla vita, quindi spetta allo Stato garantire la soddisfazione dei “bisogni Vitali” attraverso una “Revenue Garanti” (guarda caso la stessa espressione che oggi in Lussemburgo viene ancora usata per il Reddito Minimo) ed intuendo che: “poichè tutto è collegato insieme nell’economia sociale, va da sé che l’industria collassi se il cerchio dei consumatori si restringe” e specificando anche come un reddito minimo garantito a suo parere non alieni la voglia di ricercare un lavoro: “incitati dai diretti e personali vantaggi che esso produce, e dal momento che il lavoro soddisfa i bisogni acquisiti, si diventa attraenti in quanto si allarga la sfera del benessere e si diffondono i benefici del capitale”.
Passano i lustri, e di “Reddito di base” si occupano in tanti, tra cui il “visionario” Bertrand Russel, il quale nella sua Opera del 1919 intitolata “Socialismo, anarchismo, sindacalismo” con una sua originale “sintesi” tra socialismo e correlata mitizzazione del lavoro, ed anarchismo, e correlata mitizzazione della libertà assoluta, anche dal lavorare, per “tenere assieme” le due filosofie, ipotizza: “il programma che noi sosteniamo si riduce essenzialmente a questo: che a tutti fosse assicurato un certo piccolo reddito, sufficiente per i bisogni essenziali, sia che lavorino o no, e che un reddito maggiore, di tanto maggiore di quanto lo consentisse la somma totale dei beni prodotti, dovrebbe esser dato a coloro che sono disposti a impegnarsi in qualche lavoro che la comunità̀ riconosce come utile”.”
Ma è Philippe Van Parijs lo studioso che più di recente perora con maggior vigore il “Reddito di base”: osservando che il “Reddito minimo condizionato”, ed in particolare la condizione quasi sempre prevista della sua riduzione al crescere di altri eventuali redditi: “crea necessariamente una tassazione marginale sui ricchi, mentre incide al 100 per cento sui poveri. Infatti, quando una persona povera tenta di uscire da una situazione di povertà̀ o di disoccupazione, guadagnando qualche soldo grazie a un lavoro dichiarato, viene punita per il suo sforzo con la soppressione di una percentuale proporzionale del sussidio goduto. Questo significa che per i ricchi il tasso marginale è del 50 per cento al massimo, in certi Paesi del 40 per cento, mentre per i poveri è del 100 per cento, visto che perdono tutto quello che guadagnano”, nel senso che ogni somma che i beneficiari guadagnano con il proprio lavoro decurta del medesimo importo il beneficio, lasciando il loro reddito, basso, inalterato. Quindi solo il Reddito di base è in grado di portare i soggetti sopra la soglia di povertà, mentre il Reddito minimo condizionato li mantiene al di sotto. Pura teoria? Posizione radicale disancorata dalla realtà? In realtà Van Parijs “guarda più lontano” forse degli altri, osservando che: “poiché l’aumento inesorabile della produttività̀ comporta inevitabilmente una diminuzione del lavoro retribuito, un reddito incondizionato dignitoso può̀ essere proposto come giusta compensazione per quella porzione crescente di popolazione che non riesce, e non riuscirà̀ più̀, a trovare un impiego, e come riconoscimento della legittimità̀ di uno spettro più̀ ampio di attività̀”.
Del resto, questa prospettiva di fondo, che deve spingere a ragionare su di un approccio meno “workfare” rispetto alla povertà, si giustifica proprio in virtù, estremizzando, dello “irrealismo” di legare inscindibilmente reddito minimo a lavoro, è sostanziata da un economista molto più famoso, Jeremy Rifkin, che nella sua opera “La fine del lavoro” sottolinea come coloro che perdono lavoro a causa dell’automazione possiedono una bassa qualificazione ed hanno grandi difficoltà ad essere ricollocati. Il reinserimento lavorativo in una economia dove la meccatronica sostituisce il lavoro manuale e l’intelligenza artificiale il lavoro di concetto, infatti le abilità richieste dal mercato del lavoro necessitano di qualifiche ben maggiori di quelle che tali lavoratori possedevano precedentemente, tali da essere fuori da una ragionevole, in termini di tempo e percorsi, riqualificazione con nuova ed ulteriore Formazione. Per Rifkin: “è ingenuo credere che un gran numero di operai e impiegati non qualificati saranno riqualificati per diventare fisici, informatici di alto livello, biologi molecolari, consulenti aziendali, avvocati, commercialisti e simili”.
Resta così il dubbio che i “Redditi minimi condizionati” siano una risposta immediata ma non una soluzione duratura al problema della povertà, mentre i “Redditi di Cittadinanza” siano forse una soluzione duratura ma non sostenibile nell’immediato per l’estensione della platea. E se si provasse a prendere il “meglio” dei due “sistemi” e prevedere un percorso che li “coordini” (una fase uno ed una fase due) rispetto all’obiettivo finale della lotta integrale alla povertà invece di farne due teorie inconciliabili?
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