Non che non ci sia “pensiero” in quelle note di riflessione (non potrebbe essere diversamente in un autore siffatto…), ma quel che difetta è proprio la bontà delle argomentazioni. Che non convincono anche restando all’interno della loro logica dichiaratamente (e apologeticamente) laica.
Quali sono gli “attori” concettuali del dramma che viene rappresentato a proposito di questa complessa e decisiva questione? Da un lato, la donna-individuo e dall’altro una natura-specie, leopardianamente indifferente e crudele, ancorché ormai scientificamente modificabile e manipolalabile. Su questa scena senza tempo e senza storia la donna diventa nella scelta abortiva l’eroina prometeica (o faustiana…non manca la citazione di Goethe sulla “danza sfrenata” delle forze della natura di cui siamo in balia fino alla morte) che si sottrae al diktat naturale e guadagna la sua libertà dal ruolo di “funzionaria della specie”insieme al “diritto di abortire”.
In questa “morsa del conflitto tra individuo e natura” retrocedono sullo sfondo tutti gli altri elementi di riflessione e di analisi, di tutela e armonizzazione, a partire da quelli- giudicati da Galimberti secondari…- che indicano il sistema di valori praticato ( e non solo dichiarato…) dalla società in ordine alla “tutela sociale della maternità”, come recita lo stesso titolo della Legge 194: la disponibilità di servizi per l’infanzia, le risorse economiche destinate alle famiglie, la rete relazionale sociale che sottrae la donna e la famiglia stessa all’isolamento e alla disperazione…Non importano dunque le condizioni concrete in cui si viene chiamati alla vita. Resta come “assoluto” quel conflitto a due. Una guerra solitaria delle donne che devono scegliere tra se stesse (la propria individuale soggettività) e l’essere-madri imposto dalla natura e dall’economia della specie.
Tra l’essere madri e la soggettività femminile non c’è coincidenza, si sostiene.Ma questo non è lo spazio della responsabilità e dell’etica, perché “non è una faccenda di egoismo, quindi una faccenda morale”. Lo scontro è quasi metafisico… tra due “entità”, individuo (donna) e specie (natura).
Non più “funzionarie della specie”, le donne diventano così “funzionarie” dell’assolutezza astorica dei diritti individuali proclamati dalla modernità, in nome dei quali la libertà di scegliere tra istanze di rilevanza etica ( in cui propriamente consiste il tragico dilemma dell’aborto) si rovescia nella via obbligata di scegliere se stesse.
Ci sono grandi e ingiustificati assenti da questo scenario. Manca l’idea stessa di singolarità e irripetibilità della vita che è sempre questa vita. Nel dramma dell’aborto, infatti, non si fronteggiano la donna e la natura (ci vuole una bella dose d’astrazione cartesiana per non riconoscerlo) ma sono coinvolte questa donna e questa vita nascente. La scelta si colloca all’interno di questa relazione che sarà pure un capitolo della storia della specie, ma che è anzitutto e da ultimo il capitolo di due bio-grafie uniche e irripetibili. Inoltre, come avviene sempre per le storie degli esseri umani, anche questa storia ne incrocia molte altre. A partire da quella del padre (ma lui non è un “funzionario della specie”?….) che, per essere assente, magari colpevolmente, non smette di essere responsabile e partecipe di questa chiamata di qualcun altro alla vita.
Così la scena è molto più affollata di quanto questa visione grandiosamente prometeica ci vorrebbe far credere. Perché la vita chiede un occhio più attento e più “radente” ai particolari per essere compresa e anche, eventualmente, amata.
Infine, come può accadere quando si assolutizzano categorie storiche (come ad esempio quella di “diritti individuali”impropriamente estesi a campi che non sono di loro competenza) a furia di essere paladini di una supposta “modernità”, si finisce per essere arcaici.