La questione dell’introduzione e della commercializzazione, anche in Italia, della nota pillola abortiva, questione che è tornata prepotentemente sulle prime pagine dei maggiori quotidiani nazionali, sembra essere il solito, consueto terreno di scontro tra cattolici e laici, tra pro life e pro choice, tra abortisti e antiaboristi. E dunque spesso viene trattata con superficialità, come una questione meramente ideologica, laddove meriterebbe invece un approfondimento infinitamente maggiore, sul piano etico, giuridico e clinico.
Sul piano clinico, la sperimentazione condotta sinora a Torino sembra, per quel poco che se ne sa, aver dato risultati positivi; ma possiamo davvero star tranquilli? La letteratura scientifica internazionale, accessibile a chiunque si dia la pena di cercarla, mostra come alla Food and Drug Administration, negli anni passati, siano stati segnalati centinaia di casi in cui l’uso del farmaco ha causato eventi trombotici, emorragici e infettivi letali per le pazienti cui era stato somministrato. Il caso reso noto dal presidente del Comitato di bioetica francese Didier Sicard, avente ad oggetto la sua stessa figlia, morta (a 35 anni!) per setticemia proprio a seguito di un aborto chimico, pur essendo stato totalmente censurato dalla stampa transalpina (guarda caso: il brevetto della RU 486 è francese…) è una tragica conferma della potenziale pericolosità del farmaco.
Ora, ammesso che la sperimentazione condotta in Italia (brevissima, in senso assoluto) abbia dato effettivamente risultati positivi, la presenza di una simile casistica internazionale non pare essere del tutto trascurabile, e comunque ridimensiona molto la pretesa sicurezza della RU 486, e il fatto che garantisca un aborto privo di traumi e sofferenze.
Sul piano giuridico, poi, le riserve non sono minori; l’introduzione della pillola abortiva rischia infatti di scardinare l’impianto della stessa legge 194, che si costruiva intorno al principio secondo il quale la pratica abortiva doveva essere, rigorosamente, una pratica pubblica, clinica, medica, e ciò sia al fine di valutare la ricorrenza delle condizioni di liceità dell’intervento, sia al fine di tutelare la salute della donna. L’introduzione della RU 486, invece, tende inevitabilmente alla privatizzazione della pratica abortiva, alla sua de-medicalizzazione, e per conseguenza alla riduzione dei controlli sia sulle condizioni e i presupposti sia, soprattutto, sull’iter clinico della pratica medesima. Se la ratio della l. 194/78 era (anche) quella di rendere pubblica e controllata una pratica fino a quel momento casalinga, privata e incontrollabile, beh, l’introduzione della pillola abortiva va esattamente nella direzione opposta.
Infine – ma direi soprattutto – vanno sollevate alcune obiezioni di tipo etico. La prima e più evidente delle quali sta proprio in questa tendenza alla privatizzazione delle scelte e delle pratiche abortive; la scelta abortiva, nella misura in cui si sottrae al controllo pubblico e alla gestione clinica, si fa solipsistica, privata, banalizzante. Con l’effetto di lasciare la donna, invece che più libera e accudita – come si vorrebbe – molto più sola, unica a gestire le conseguenze di una scelta sempre tragica e dolorosa, lontana dall’accudimento (che non è solo clinico, ma anche amministrativo, psicologico, ecc…) del personale sanitario.
E tuttavia, non è forse neppure questo il punto centrale. Mi sembra infatti che sbagli il mondo cattolico o genericamente pro life laddove vede nell’introduzione della pillola RU486 una pratica di per sé eticamente negativa, inaccettabile anche in ordinamenti (come il nostro) in cui l’aborto è pur sempre una pratica consentita. Non ha senso, in altre parole, concentrare le proprie critiche sulla pillola abortiva, come fosse una frontiera ancor più arretrata rispetto a quella su cui la nostra società si era attestata dopo la l. 194/79; non è un problema di frontiere, di trincee spostate un po’ più in qua o in là, così come non è un problema di tecniche. Mentre infatti dal punto di vista clinico ha molto senso valutare i rischi effettivi di una nuova tecnica abortiva, dal punto di vista etico non ne ha quasi alcuno. Che differenza – sul piano etico – può fare che l’aborto avvenga chirurgicamente o chimicamente? Quasi nessuna.
Il dramma etico è l’aborto in sé, comunque questo avvenga. Solo che lo stesso mondo cattolico, e tutti coloro che ritengono la vita umana nascente meritevole di tutela assoluta, sembrano aver rinunciato a dirlo, sembrano aver metabolizzato l’esistenza della l. 194, e perciò si limitano a fare battaglie di retroguardia: l’aborto si, ma non chimico, per carità!
Ma le battaglie di retroguardia sono sempre perdenti. O si capisce che il vero problema è la cultura di morte che si veicola con l’aborto (e l’eutanasia, e la sperimentazione sugli embrioni, ecc…), e che dunque contro di essa vanno sollevate tutte le obiezioni sul piano etico, facendosi attivi promotori di una cultura della vita, o far finta che il problema dell’aborto non esista e non vada sollevato, limitandosi a criticare singole, nuove pratiche abortive, sembra davvero una scelta poco comprensibile.