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E’ esplosa sui giornali la questione dei cosiddetti “grandi prematuri”, ovvero dei bambini nati prima della 25 settimana di gestazione, e che ruota intorno alla questione dei trattamenti sanitari cui sottoporli, e dei criteri in base ai quali stabilire gli interventi attuabili.

La questione non è nuova, in verità, ma solo ora che il ministro Turco ha portato la discussione a livello istituzionale, con l’intenzione di elaborare, se del caso, protocolli clinici atti a orientare l’azione del medico, anche i media non specialistici cominciano a percepire la rilevanza del problema. In modo un po’ fumoso, a dire il vero.
A leggere i quotidiani, infatti, pare che la questione sia o squisitamente tecnica, o talmente sottile da sembrare praticamente irrilevante; anche perché, in effetti, la casistica non si attesta su numeri particolarmente elevati. E tuttavia, dietro quella che indubbiamente è anche una questione clinica, c’è un problema notevolissimo di tipo culturale e giuridico, che è bene mettere in evidenza per comprendere come la questione dei grandi prematuri non sia né tecnica né marginale, ma cruciale.
La proposta che alcuni neonatologi avanzano, e che ha trovato una sua prima ufficiale estrinsecazione nella cosiddetta Carta di Firenze è, in sostanza, questa: fino alla ventiduesima settimana di gestazione il neonato non deve essere sottoposto ad alcun tipo di trattamento vitale (indispensabile per la sopravvivenza, posto che generalmente a questo stadio, ad esempio, i polmoni del bambino non sono ancora sviluppati pienamente); dalla ventitreesima alla venticinquesima settimana, tali trattamenti vanno praticati solo previo consenso dei genitori.
Perché? La risposta data da coloro che sono favorevoli a tale impostazione è che si tratterebbe di bambini comunque non capaci di vita autonoma, suscettibili più di tutto di sviluppare patologie e malformazioni di vario tipo, e che in sostanza andrebbero classificati come aborti.
Non entro nel merito delle questioni cliniche, anche se autorevoli neonatologi sono attestati su posizioni di tutt’altro tipo. Sollevo invece obiezioni sul piano culturale e giuridico.
La proposta di non sottoporre ad alcun tipo di terapia vitale ogni neonato al di sotto della ventiduesima settimana non va criticata infatti in ragione della scelta della soglia temporale; anche se questa soglia si spostasse ancora più indietro, il problema sarebbe immutato. E il problema è che si affermerebbe un’inversione del paradigma su cui si costruisce l’equilibrio tra prassi medica e accanimento terapeutico.
In altre parole: normalmente, di fronte ad un soggetto affetto da una qualsiasi patologia, qualunque sia l’origine della medesima, il medico ha anzitutto il dovere di curare, e solo secondariamente, ove verifichi in concreto l’inutilità delle cure, è tenuto ad astenersi da trattamenti inutili e invasivi. E’ solo nel singolo caso, di fronte al singolo paziente, che il medico può in scienza e coscienza ritenere che la terapia sia inutile, e che dunque non vada praticata.
Qui si propone di invertire il meccanismo: il medico avrebbe anzitutto il dovere di astenersi da ogni trattamento, e solo secondariamente, ove verificasse in concreto le capacità vitali del bambino, potrebbe procedere ad una serie di trattamenti. E ciò, si badi, di principio; non si chiede cioè al medico di verificare e vagliare caso per caso, ma gli si impone per legge una soglia (quale che sia) al di là della quale non avrebbe il diritto di praticare interventi in ipotesi idonei a garantire la sopravvivenza.
Va detto, se ce ne fosse bisogno, che un grande prematuro è, nel nostro ordinamento, un soggetto di diritto in senso pieno, forte; non siamo di fronte a un embrione, a un feto, a soggetti cioè dei quali (purtroppo) si discute ancora se e in che misura vadano riconosciuti come persone e come vadano tutelati. Qui non può esservi dubbio: un soggetto nato, e nato vivo, per quanto fragile e incapace di vita autonoma è un soggetto di diritto, un soggetto che ha cioè in pienezza, fra gli altri, il diritto (costituzionalmente garantito) alla salute, ovvero ad essere sottoposto – almeno finché un medico non ne valuti l’inopportunità in concreto – ad ogni trattamento sanitario idoneo a garantirgliela.
In questa prospettiva, ancor più allucinante pare la previsione secondo cui, tra la ventitreesima e la venticinquesima settimana, i trattamenti terapeutici sono subordinati al consenso dei genitori; ma scherziamo? Qui l’aborto non c’entra niente, qui si vuole affermare un diritto di vita e di morte del genitore sul figlio, che il nostro ordinamento non ha mai conosciuto. Anzi: il nostro ordinamento ha sempre fatto prevalere il diritto alla salute del minore su ogni altro diritto, pur di rango costituzionale, dei genitori (si pensi al caso dei testimoni di Geova, i quali sono tenuti a sottoporre a terapia trasfusionale i loro figli, anche in contrasto con i precetti religiosi cui obbediscono). E invece, nell’opinione di alcuni, il genitore potrebbe – per ragioni non valutabili e comunque irrilevanti – decidere che il figlio non debba essere curato, anche ove la terapia in questione potrebbe salvargli la vita.
La logica della “qualità della vita” è pervasiva, come si vede; ma qui non si tratta di opporsi ad essa in nome della “sacralità” della vita umana, ma molto più semplicemente di ribadire l’assurdità giuridica dell’idea secondo cui un neonato, per quanto malato, per quanto esposto a sviluppare malformazioni (solo ipotetiche, peraltro), non debba per principio essere curato, o possa esserlo solo previo consenso dei genitori. In spregio della nostra Costituzione e di quel diritto fondamentale alla salute che, almeno fino ad oggi, va garantito a tutti.
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