Fra i firmatari molti docenti universitari e Mario Riccio, l’anestesista che aveva “staccato” il respiratore di Piergiorgio Welby. La prima sensazione è quella che in bioetica il dialogo, almeno per alcuni, sia davvero impossibile. La laicità, più che come atteggiamento e metodo, è intesa come un’appartenenza che profila con nettezza un avversario – le «organizzazioni religiose» che «pretendono di imporre i propri orientamenti a tutti» – e squaderna il vocabolario con cui giudicarlo: attentati ai diritti, tabù, chiusure, ideologia, dogmatismo. Insomma: il pensare dell’altro che non è un pensare diverso, ma semplicemente un pensare male. Abbiamo visto, in questi ultimi mesi, moltiplicarsi i Manifesti di bioetica: prima la Fondazione Liberal, poi l’invito alla «ragione pubblica» offerto al nascente Partito democratico proprio con l’obiettivo di superare la contrapposizione rigida fra laici e cattolici, adesso questo appello alla mobilitazione a difesa del pluralismo e contro tutti i divieti e obblighi dettati da «un’autorità priva del consenso delle persone sulle quali pretende di esercitarsi». La verità è che un Manifesto serve certamente a soddisfare l’esigenza di schierarsi. Non è detto che aiuti anche a capire di più e meglio.
Questo “nuovo” documento ripete in realtà due vecchi equivoci. Il primo e più evidente è l’illusione del principio passe-partout, l’idea cioè che esista un’unica e semplice formula che consentirebbe di risolvere tutte le questioni bioetiche. La formula, nel caso del Manifesto, si riassume così: il solo limite che il diritto (law) può legittimamente imporre all’esercizio dell’autonomia individuale nasce dall’evidenza di un danno ad altri. La presenza fra i firmatari del medico che ha chiuso la tragica vicenda Welby è in questo senso particolarmente significativa. L’esempio del diritto (right) al rifiuto delle cure sembra in effetti corrispondere abbastanza bene alla situazione presupposta dal modello, tanto è vero che intorno ad esso si è consolidato un consenso ormai recepito dagli stessi ordinamenti. Questa, purtroppo, è però l’eccezione e non la regola. Per le altre “libertà” che vengono rivendicate è molto meno semplice superare il setaccio proprio del principio del danno. In qualche caso insistendo su di esso si attiva anzi una strategia di elusione del vero problema morale in gioco.
Il diritto all’eutanasia non si deduce in automatico da quello al rispetto della propria libertà. Lo ha scritto uno dei firmatari del Manifesto: in gioco ci sono perlomeno «gli ulteriori problemi legati al fatto che si chiama in causa la volontà di un’altra persona oltre a quella del morente» (E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 20043, p. 91). La morte “dolce” può (deve?) diventare la più burocratizzata e pubblicamente controllata quando si abbandona il principio di garanzia che un medico non può mai somministrare al suo paziente il farmaco che uccide. La rivendicazione di nuovi modelli di vita e di relazione è solo indirettamente una questione bioetica, ma è proprio l’obiezione a chi li contesta che i danni devono essere «chiaramente provati», che il principio di precauzione è «generico e difficilmente quantificabile» a tradire la consapevolezza che i dubbi e magari la stessa richiesta di divieti non possono essere liquidati come l’ultima zavorra dell’oscurantismo. Si pensi solo al reclamato diritto dei singoli ad accedere alle nuove tecniche di procreazione. L’ostacolo, più che la religione e gli esperti, sembra qui essere il senso comune, la resistenza all’idea che nella condizione dell’orfano non si debba vedere nulla che a quel bambino si preferirebbe non fosse toccato, pur sapendo che potrà essere altrettanto e forse anche più amato. Nel caso dell’aborto, addirittura, la pretesa di utilizzare comunque il passe-partout non può non provocare un imbarazzante cortocircuito: è per «tutelare» la salute del nascituro – si scrive – che la gravidanza deve poter essere interrotta. Nessuno, ovviamente, pensa che tutelare la salute di una persona significhi sopprimerla contro la sua volontà. Il punto è che quando si discute della vita prenatale alcuni ritengono che si possa discutere della salute senza la persona e che per questo il valore oggettivo della qualità della vita attesa possa diventare il criterio decisivo. Quella vita – si sostiene – non è ancora la vita di qualcuno. Conclusione: la questione dell’aborto non si risolve con il principio del danno; essa è e rimane una questione di riconoscimento. Accettare questa complessità significa accettare che le decisioni bioetiche sono, il più delle volte, ragionevolmente controverse e per questo impongono un livello se possibile ancora più alto di rispetto del pensiero e dei valori degli altri, forse perfino di quelli dei cattolici.
Una considerazione analoga vale per il secondo equivoco, che riguarda il rapporto fra diritto e morale. È lo sfondo non tematizzato del Manifesto. La rivendicazione di libertà, là dove altri vorrebbero obblighi, potrebbe essere interpretata alla luce della contrapposizione fra un diritto “mite” e non intrusivo, rispettoso della sfera intima dei desideri e del voler essere se stessi davanti alla morte e alla responsabilità di dare la vita e la tesi, cara al Magistero cattolico, che su questi temi richiama invece al dovere di una «non negoziabile» tutela delle basi antropologiche della convivenza e dunque di varare e applicare leggi coerenti con le «esigenze etiche fondamentali». È evidente che questa posizione non riesce facilmente a smarcarsi dall’accusa di risolvere con il ricorso ad un inaccettabile principio di autorità il contrasto su ciò che si intende come bene, come valore o esigenza fondamentale. Quella che il diritto possa essere neutrale è però un’illusione. In un contesto culturale e giuridico che si regge sul pilastro del principio che «ogni individuo ha diritto alla vita» (secondo articolo della Carta di Nizza) le leggi che consentono l’aborto includono comunque una presa di posizione su ciò che è appunto moralmente controverso: lo statuto dell’embrione. Né più né meno di quanto accade con la legge 40. Non perché è una “cattiva” legge (il che poi può anche essere sostenuto), ma semplicemente perché è inevitabile. Quasi tutti, peraltro, sembrano convenire sull’intrinseca ambiguità del limite del diritto (per riprendere il titolo di un recente volume di Stefano Rodotà). La libertà assoluta è impensabile, perché solo regolandola se ne consente il concreto esercizio a tutti. L’imposizione per legge di comportamenti che coinvolgono il senso profondo dell’identità personale stride con il concetto di dignità intorno al quale sono cresciute le moderne società liberali. Esattamente un mese fa ci ha lasciati Pietro Scoppola, che con le sue posizioni sull’aborto e la fecondazione eterologa non avrebbe probabilmente passato l’esame di “laicità” del Manifesto. In uno dei suoi ultimi scritti egli ci metteva in guardia dall’interpretazione della libertà della coscienza – della quale è stato intransigente testimone per un’intera vita di studio e di impegno politico – come salto «in un vuoto etico o comunque in una zona opaca della coscienza collettiva». Nessuno vuole che ciò avvenga. Per questo vale la pena di continuare a battere la via “difficile” di una ricerca paziente e di un linguaggio senza offesa.