Lo scorso 18 gennaio abbiamo ricordato i 100 anni dall’Appello ai «liberi e forti» di Don Luigi Sturzo, con cui nasce il partito popolare. Quali idee, presenti in quel testo, hanno ancora la forza di generare dei cambiamenti sul piano sociale e politico? Quali istanze sono ancora attuali?
Sarebbe un errore cercare di leggere quel testo ed attualizzarlo come se non fosse passato un secolo. Come sappiamo il modo di rapportarsi ad una tradizione non è quello di contemplare le ceneri ma di ravvivare il fuoco. Io vedo due legami, due punti che ci riportano a Sturzo. Il primo è una fase storica di transizione come era quella della fine della prima guerra mondiale. Anche oggi noi siamo dentro una transizione, dentro un cambio di sistema che ha bisogno di idee, di visioni, di sensibilità nuove che possono e devono nascere solo dall’esperienza concreta che le comunità cristiane hanno fatto e stanno facendo nella realtà, cioè la prima idea è che la presenza dei cristiani in politica fa differenza quando si radica nella concretezza della vita e non diventa semplicemente un’ideologia.
Il secondo legame che vedo tra un secolo fa e l’oggi è che Sturzo è stato il grande interprete, o uno dei grandi interpreti, in Italia delle implicazioni della Rerum Novarum cioè dell’impegno rinnovato che i cattolici nel nostro Paese ed in altre parti del mondo, hanno cominciato ad esplicitare nei confronti della modernità e dei suoi problemi. Noi oggi abbiamo alle spalle la Laudato si’ che come la Rerum Novarum è in grado di costituire la cornice di riferimento per un’azione civile e politica. In questo ragionamento vedo anche una differenza. Non siamo al 1919 (anche se la ricorrenza è questa) ma forse siamo a qualche anno prima, al periodo in cui Sturzo aveva lavorato con la società civile facendola crescere, aiutandola a diventare capace di essere innovativa, di trovare soluzioni nuove ai problemi che la fase della modernità allora poneva e che la Rerum Novarum aveva ricostruito. Credo che il primo compito che noi abbiamo dunque è quello di capire cosa le nostre comunità, la nostra fede, sta realizzando nella realtà, farlo sviluppare, portarlo a compimento e un po’ alla volta arrivare ad interloquire, a suggerire persino un nuova visione della crescita, dello sviluppo, del futuro, che è ciò di cui oggi la politica è più deficitaria.
In un suo recente articolo pubblicato sul “Corriere delle sera” intitolato “Dalla lotta di classe all’estremismo digitale” lei afferma tra l’altro: “Siamo così entrati nell’epoca della post-propaganda: più che attraverso lunghi proclami, l’aggregazione avviene attorno a narrazioni contro-fattuali, «verità alternative» e storytelling malevoli”. E sostiene che per uscire da questa situazione “i piccoli aggiustamenti non basteranno. Occorrono idee, simboli, speranza e persone nuove”. Quali? A cosa si riferisce? In questo ambito, il patrimonio di idee del popolarismo sturziano può ancora avere una sua attualità ed utilità? In che termini?
Da questo punto di vista c’è sicuramente una similarità tra la fase che visse Sturzo nel 1919 e il momento attuale cioè lo spostamento a destra dell’insoddisfazione popolare che mette insieme gli strascichi prolungati della crisi economica e l’incertezza sempre più ampia che entra nel tessuto sociale e il ruolo che svolgono i social media nella ricerca del consenso che è l’aggiornamento – si parla di post-propaganda – della costruzione di un’aggregazione politica che non sa gestire i problemi ma che sfrutta la rabbia esattamente come avvenne negli anni 20. Allora il tentativo di Sturzo, che ebbe poca fortuna, rispetto all’avvento del fascismo, non fu sufficiente, almeno nell’immediato, per creare una visione diversa che impedisse poi gli sviluppi che storicamente abbiamo conosciuto. Il popolarismo allora come oggi, sebbene rinnovato, è una chiave importante perché da una parte insiste sull’importanza di stare vicino all’uomo della strada, all’uomo comune, alla vita di tutti i giorni come luogo che pone domande, che va ascoltato, che va conosciuto, che va accompagnato, e nello stesso tempo, allora come oggi, insiste su un’idea responsabile di libertà che si rivolge esattamente a questo popolo inquieto con proposte istituzionali nuove ma soprattutto con un nuovo ingaggio che è l’unica soluzione rispetto ai problemi che abbiamo. In discussione oggi come allora è la libertà che rischia di rovesciarsi sempre nel suo contrario. Il popolarismo invece mettendo insieme vicinanza ma anche responsabilità costituisce il solco dentro cui possiamo lavorare per mettere a punto un’idea di sviluppo economico, sociale e politico che non sia la mera conservazione di ciò che è stato ma sia davvero capace di immaginare il futuro.
Nel suo ultimo libro “Oltre l’infinito. Storia della potenza dal sacro alla tecnica”, edito da Feltrinelli, lei ragiona – tra l’altro – sul tema della sovranità sostenendo che quella moderna si fonda su una pretesa impossibile. Può spiegare in che senso? E’ ancora possibile – come auspicava Sturzo – che i governi e le nazioni singolarmente ed insieme, superando le tentazioni sovraniste, perseguano ideali di giustizia sociale per migliorare le condizioni generali e del lavoro?
Il tema della sovranità è tornato chiaramente all’ordine del giorno nella crisi della globalizzazione e il sovranismo oggi è il sogno di poter separarsi da ciò che ci circonda e di poter procedere autonomamente gli uni dagli altri. La storia della modernità ci insegna che la sovranità – che è un concetto importante se concepito come relazione, come costruzione di confini che sono forme limitate che non servono per costruire muri ma per mettere in relazione mondi e forme di vita di diverse, culture diverse – ha mostrato già tutti i suoi limiti e oggi corriamo il rischio di tornare al punto di partenza. Ben inteso noi paghiamo l’immaginario opposto, quello di un cosmopolitismo astratto relativo alla possibilità di vivere come atomi isolati in un sistema tecnico globale che avrebbe dovuto risolvere tutti i nostri problemi. Oggi dobbiamo ricostruire dei confini ma consapevoli che ogni cultura, ogni mondo ha senso solo se in rapporto a ciò che sta al di là dei propri confini e responsabilmente contribuisce a quel cammino della famiglia umana che definisce l’orizzonte davanti a noi. Ciò che riceviamo in eredità da Sturzo è il fatto che ogni storia, ogni tradizione, ogni cultura, radicata nella vita concreta delle persone contribuisce a questo percorso nella sua specificità, nella sua concretezza universale. Questa è un visione di cui c’è un enorme bisogno oggi in questo scontro tra concezioni cosmopolitiche e reazioni sovraniste che rischiano di generare conflitti sempre più acuti.
Quali riforme della previdenza, del lavoro, del welfare e del fisco sarebbero più in linea con le indicazioni contenute nell’Appello? Quali riforme sono oggi necessarie per garantire maggiori condizioni di giustizia nel nostro Paese? Il reddito di cittadinanza può essere una risposta adeguata?
Uno dei cardini del popolarismo di Sturzo è quello di contare sulla capacità di azione, di iniziativa, di resilienza delle persone e delle comunità, rafforzandole invece che oscillare tra un individualismo iperliberista da una parte e lo statalismo dall’altra. Questa visione di fondo ci può ispirare anche oggi nella crisi in cui siamo finiti, perché il rischio è che si confrontino le due posizioni polari che ho richiamato prima: da una parte i difensori del mercato come unica soluzione per i nostri problemi compresi quelli sociali e del welfare, ad esempio, e dall’altra parte un neo statalismo che vediamo in molte delle misure dei sovranisti e del nostro governo nello specifico. La direzione di marcia è quella che mi è capitato di chiamare “uno scambio sostenibile contributivo”: da una parte costruire le condizioni di una nuova relazione tra economia e società nella misura in cui noi ci rendiamo conto oggi che non c’è sviluppo economico se contemporaneamente la stessa economia non si fa carico dello sviluppo umano, sociale e ambientale circostante. La sostenibilità da sola non basta, ci vuole la contribuzione, cioè ci vuole il fatto che tutti noi come individui, come gruppi, come comunità siamo chiamati a dare il nostro contributo alla costruzione di un valore condiviso, che poi è la condizione della stessa crescita economica e dello sviluppo politico e sociale. Da questo punto di vista la matrice del pensiero sturziano è quanto mai viva anche dentro la crisi che stiamo attraversando.
Il federalismo sturziano in che senso potrebbe aiutare il nostro Paese, ed in particolare il Mezzogiorno, a trovare una sua dinamica di sviluppo?
Sturzo era siciliano ma veniva da Caltagirone che era una piccola enclave dove storicamente è esistita una lunga tradizione cooperativa e questo spiega molto della sua opera. Il federalismo appartiene alla storia della cultura politica cattolica e certamente se si guarda all’Italia si vede che il federalismo è un elemento importante, che ovviamente va pensato come fattore di coesione e non come fattore di divisione. In realtà – come Sturzo – penso che lo statalismo centralista basato sulla spesa pubblica alla fine, soprattutto nel Meridione, finisca per riprodurre una situazione stagnante e gerarchica che opprime i poveri e gli ultimi. Ma si deve anche dire che gran parte della società meridionale deve ancora maturare l’importanza che una concezione federalista porta con se dal punto di vista di un salto che è necessario per lo sviluppo del Sud. Dopo 70 anni di dipendenza dai trasferimenti pubblici occorre, con spirito di solidarietà e di amicizia, riuscire a costruire un modello diverso per la crescita del Sud liberandolo dalla dipendenza dai soldi pubblici.
Che ruolo possono ancora svolgere i cattolici sul piano sociale e politico per operare una “nuova civilizzazione” dell’Italia? In quali forme?
Il ruolo è quello di cui parlava Sturzo. Non essere tanto portatori di interessi di parte, non essere il braccio secolare della Chiesa nel mondo ma essere soggetti consapevoli, alla luce del Vangelo, della crisi in corso, capaci di lavorare prima dentro il tessuto della società e, se ci sarà modo e possibilità, di orientare le scelte politiche in vista di una nuova civilizzazione. E’ infatti questa la profondità della crisi in atto, di cui già parlava Ratzinger nella Caritas in veritate e che Begoglio ha ripreso nella Laudato sì’; una crisi antropologica che si traduce in crisi economica e sociale di fronte alla quale i cristiani e i cattolici in specie sono chiamati, nell’Italia e nell’Europa contemporanea, a provare con generosità, audacia e spirito di servizio a portare il loro contributo per sanare le ferite che vediamo intorno a noi.
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