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Il decreto sulla spending review recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri consentirà di evitare, per il momento, l’aumento di due punti dell’Iva che sarebbe dovuto scattare ad ottobre. Questa è senz’altro una buona notizia soprattutto per i cittadini meno ricchi di tutto il Paese. L’incremento dell’Iva, infatti, per la sua natura di imposta indiretta tende ad avere un impatto regressivo particolarmente pesante per le famiglie con reddito più basso che tendono a spendere in consumi una quota prevalente dei propri redditi.

Aver scongiurato questo pericolo, che avrebbe ulteriormente depresso la domanda interna con effetti a cascata sulle imprese e sull’occupazione, non può però far trascurare le preoccupazioni per la tenuta economica e sociale di alcune aree del Paese, concentrate soprattutto nelle regioni meridionali, già piegate dai precedenti tagli dei trasferimenti e dalla riduzione di occupazione generata dalla crisi economica. Anche perché l’intervento prevede una ulteriore sforbiciata alla spesa pubblica, valutabile in circa 8 miliardi nel biennio 2012-2013. Come è giusto che sia, viene chiesto un sacrificio a tutto il Paese, da Bolzano e Canicattì. Come ben sappiamo nel Sud, ma non solo, sono presenti sacche di spesa inefficiente che vanno aggredite con severità e durezza, evitando che forme di protezionismo politico-clientelare proteggano aree di privilegio che arricchiscono pochi, in presenza di una pessima qualità dei servizi ai cittadini. Eppure sul piano più prettamente macro-economico il Governo non può trascurare che il venir meno di risorse pubbliche in un sistema economico asfittico come quello meridionale ha effetti recessivi ben più pesanti.
La dipendenza del Sud dai flussi di spesa pubblica, che ci piaccia o no, è un elemento strutturale riconducibile non soltanto ad assistenzialismo e malaffare (che non si può certo negare) ma soprattutto all’insufficiente accumulazione di capitale produttivo privato. La sfida dunque è qui più difficile che altrove, e riguarda la capacità di compensare gli inevitabili tagli della spesa con  una sua parallela riqualificazione, così da aumentarne l’efficienza in termini di attivazione della crescita. I tagli lineari del precedente Governo, in un periodo di forte crisi, hanno proprio dimostrato che una logica puramente ragionieristica di risparmi, senza interventi mirati per la crescita, determinano riduzioni più forti del PIL e dell’occupazione nelle aree deboli. Tra il 2007 e il 2011 il PIL meridionale si è ridotto di oltre il 6% a fronte del -4% del Centro-Nord. Se sommiamo il calo previsto dalla SVIMEZ per il 2012 (-3%), parliamo di una riduzione del prodotto del 10% rispetto ai livelli pre-crisi. Una simile recessione impatta su un’area caratterizzata da livelli di occupazione regolare lontanissimi dagli standard del resto del Paese e dell’Europa. Con la perdita di circa 300 mila posti di lavoro determinata dalla crisi e dalla contrazione della domanda pubblica, soprattutto di investimenti, il tasso di occupazione è sceso nel Sud al 44% (20 punti meno che al Nord), quello dei giovani e delle donne ad appena il 30%. In un simile contesto, se non si riesce a dare il segno dell’esistenza di un progetto che riesca ad ampliare le opportunità di lavoro e di realizzazione professionale soprattutto dei giovani più qualificati, è inevitabile che le resistenze del sistema al processo di revisione di spesa pubblica saranno più forti.
Il punto dunque è la debolezza dell’azione di promozione della crescita. Molte volte si sente ripetere che una ripresa del Paese dipende anche da una riattivazione delle energie inutilizzate presenti nelle regioni meridionali; ma mancano ancora azioni concrete in questa direzione. L’esperienza dal dopoguerra ad oggi, in Italia e soprattutto nel Mezzogiorno, ha dimostrato come non sia la quantità delle risorse pubbliche di per sé a determinare processi di sviluppo virtuoso; ma anche che, parallelamente, non è certo con l’arretramento dello Stato che si liberano risorse private in grado di creare crescita. La difficile situazione economica richiede dunque, accanto alle misure di risanamento, la responsabilità attiva dell’operatore pubblico, non come pura entità di spesa, bensì come capacità di delineare e perseguire una strategia per le aree più deboli. Il decreto sviluppo emanato nelle scorse settimane dal Governo appare sotto questo punto di vista piuttosto debole. Alla corretta eliminazione di forme di incentivazione ormai inutilizzate (che erano destinate prevalentemente alle aree deboli) non fa seguito la definizione di una nuova strategia di interventi a finalità regionale, per le quali sarebbe stato invece utile definire un Fondo ad hoc. Occorre prendere atto che nella crisi le prospettive di crescita delle regioni deboli sono già state fortemente pregiudicare da un quinquennio di tagli significativi delle risorse per investimenti. Ulteriori interventi, per essere economicamente e socialmente sostenibili, non possono che essere compensati da una reale “riqualificazione” (pensiamo ai fondi strutturali) della spesa dello Stato e delle Regioni, che intervenga sugli sprechi, ma che, allo stesso tempo, aumenti gli interventi di sviluppo.. In assenza di essi, non si tratta più di spendig review, ma solo di tagli.

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