La frontiera più immediatamente esposta è naturalmente quella della capacità di continuare a disporre di beni anche di prima necessità, ma le faglie della disuguaglianza e della marginalizzazione passano allo stesso tempo per temi come l’accesso al credito, la protezione dei soggetti più vulnerabili e i diritti di cittadinanza. Proviamo allora a lanciare nel pubblico dibattito alcune idee a basso costo o addirittura a costo zero, ognuna “mirata” ad un diverso tipo di target.
L’introduzione volontaria di prezzi calmierati su un numero limitato di prodotti di prima necessità da parte di commercianti “socialmente responsabili” può contribuire al recupero del potere d’acquisto. Un incentivo potrebbe essere garantito dall’inserimento dei partecipanti in un registro pubblico e pubblicizzato in rete dal governo e dalle amministrazioni locali. Con il loro gesto essi promuoverebbero il punto vendita su larga scala, puntando al “voto” espresso dal cittadino-consumatore col portafoglio del consumo e del risparmio responsabile. Si potrebbe inoltre vincolare l’acquisto di prodotti calmierati (da contenere entro un tetto di spesa, per limitare al massimo il rischio della “rivendita”) ad un parallelo volume minimo di spesa nello stesso punto vendita a prezzi di mercato. Per evitare cannibalizzazioni della grande distribuzione nei confronti dei negozi al dettaglio, si potrebbero differenziare le liste di prodotti sui quali è possibile realizzare l’iniziativa nei due ambiti. Se lo sconto richiesto per entrare nel circuito fosse sensibile, i più bisognosi si troverebbero con un accesso ad un ampio paniere di beni e servizi a prezzi veramente convenienti, mentre la differenziazione delle liste fra i diversi punti vendita costituirebbe, di converso, un disincentivo a completare la propria spesa in questo modo se non in presenza di condizioni di necessità.
Questa proposta può essere sensibilmente rafforzata dall’introduzione di un accesso privilegiato a queste offerte speciali, sul modello della social card e con l’obiettivo di aumentare il vantaggio per le categorie più bisognose (famiglie numerose, monoreddito o comunque in difficoltà economica, lavoratori in mobilità o cassa integrazione, ecc…). Va però considerato in questo caso il problema della certificazione di questa condizione di maggiore bisogno, oltre a quello del timore più o meno giustificato dello stigma sociale, che è sempre un potente fattore di marginalizzazione. Un modo per evitare questo problema è quello di agevolare circuiti “dal basso” già attivi in alcune città per promuovere solidarietà e condizioni di accesso ai prodotti a costi inferiori, come i banchi alimentari o i gruppi di acquisto solidale. Poche risorse sarebbero sufficienti per potenziare questi meccanismi e diffonderne la “cultura”.
Sul fronte dell’accesso al credito, l’idea più promettente è forse quella di mettere una piccola quantità di risorse in un fondo di garanzia rotativo per l’inclusione finanziaria, in grado di attivare prestiti alla microimpresa o prestiti ponte di liquidità alle famiglie. Il problema qui non sta tanto nello strumento in generale (ci sono già molti fondi di garanzia) ma nel modo in cui lo si vuole costruire. Sulla falsariga di quanto appena realizzato proficuamente in Abruzzo e di altre recenti esperienze, il problema chiave che queste forme di microcredito devono superare per avere successo è la mancanza dell’incontro tra l’offerta (le banche che erogano) e la domanda (i bisognosi di inclusione finanziaria). Il vero salto di qualità che un governo dovrebbe fare è quello di riconoscere il ruolo fondamentale dei tutor “accompagnatori” not for profit del dossier, che riducono al minimo i costi e i tempi delle banche erogatrici (che non possono dedicare a questa attività che poche ore lavoro pagate full time senza andare in perdita) e seguono l’intero processo appoggiandosi a contributi di organizzazioni della società civile. L’intero meccanismo, se ben costruito, ha dimostrato di poter funzionare, potendo attivare fino a 30 milioni di prestiti (che producono una creazione di valore economico ancora più elevata) con un fondo pubblico rotativo di soli 3-4 milioni di euro. Il fondo è rotativo e dunque continua ad essere nelle disponibilità pubbliche generando nuove risorse per finanziare altre iniziative una volta esaurita la prima tornata di prestiti. L’importante è attivare piccoli fondi selettivi, lavorando con quegli intermediari che hanno già dato prova in passato di saper operare in questo settore. L’iniziativa ha anche un significato pedagogico fondamentale, perché promuove dignità e inclusione anziché dipendenza e passività.
Una crisi è sempre più aggressiva nei confronti di chi già vive una condizione di speciale vulnerabilità, a partire da molti anziani e dai disabili. Tutte persone che hanno particolari bisogni di “cura”, non solo dal punto di vista medico. Le indennità con le quali lo Stato cerca tradizionalmente di venire incontro a queste necessità appaiono non solo sempre più insufficienti, ma anche più esposte alla minaccia della logica crudele dei “tagli”. E le famiglie, da sole, non ce la fanno. Si potrebbe, in questo caso, favorire l’incontro, auspicabilmente temporaneo, fra questa “domanda” e una “offerta” di lavoro che proprio la crisi ha espulso dal tradizionale circuito della produzione. In concreto: il modello del lavoro di impegno civile, per utilizzare la felice espressione di Ulrich Beck e sulla scia di alcune esperienze già orientate in questa direzione, potrebbe essere valorizzato ad integrazione degli ammortizzatori garantiti a chi sta perdendo o ha perso la propria occupazione, in parallelo ai doverosi interventi di supporto e riqualificazione in vista di nuove opportunità e offrendo un incentivo alla disponibilità per un’attività di “accompagnamento” delle persone più vulnerabili. Questa attività dovrebbe essere organizzata e coordinata sul territorio da organizzazioni non profit e l’incentivo, che potrebbe anche arrivare a pareggiare il precedente trattamento economico, sarebbe finanziabile con parte dell’indennità di accompagnamento, con un contributo fiscalmente agevolato da parte delle famiglie e attraverso quei canali della solidarietà che restano un patrimonio importante della nostra società civile.
Si può utilizzare questa ipotesi per evitare che si allarghino altre crepe che la crisi apre nello spazio della cittadinanza, ovunque vengano messi a rischio i diritti fondamentali delle persone e puntando a rilanciare una cultura della responsabilità e della condivisione. In questi giorni gli italiani sono alle prese con la dichiarazione dei redditi.
Il governo potrebbe annunciare che il 50 per cento del maggior gettito risultante dalle dichiarazioni dei soggetti il cui reddito ha superato nel 2011 di almeno il 10 per cento il reddito del 2010 andrà a finanziare forme di lavoro di impegno civile per i giovani. Garantendo allo stesso tempo una rendicontazione cristallina delle entrate e delle uscite. Forse è vero che un obiettivo come questo, in un paese come l’Italia, sarebbe in ogni caso destinato a non scaldare più di tanto il cuore degli evasori. Sarebbe però un bel messaggio e qualche varco nel muro dell’egoismo, alla lunga, potrebbe aprirsi. Nell’articolo 4 della nostra Costituzione c’è in fondo proprio l’idea di questa condivisione. Il lavoro è un diritto e la Repubblica «promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Ma il lavoro è anche un dovere, al quale ogni cittadino è chiamato, secondo le proprie possibilità oltre che la propria scelta, per concorrere «al progresso materiale e spirituale della società». E dunque anche per difendere i valori che in quel progresso si sono consolidati. Anche i veri sostenitori del mercato sanno che esso può portare benefici economici e sociali duraturi solo se si allarga la platea dei partecipanti e si mettono in moto meccanismi partecipativi e solidali di questo tipo. Il rigore al quale non ci possiamo sottrarre non è un lasciapassare per l’ingiustizia.