Per questo la crescita è una soluzione ai problemi del debito pubblico esattamente nella misura in cui la pioggia è una soluzione ai problemi della siccità: una soluzione sulla quale non esercitiamo alcun controllo. Tanto vale riciclare la danza della pioggia, trasformandolo in questo caso in danza della crescita.
Dunque affidare la soluzione dei nostri problemi di debito pubblico alla crescita merita di essere incluso nella lista delle attese fervide e passive di un evento che non si realizza mai, come l’attesa di Godot nell’opera di Beckett..
Meglio puntare su qualcosa di più concreto. Il punto qui sollevato non è la similitudine tra la crescita e la pioggia ma la differenza tra di loro. Infatti, oltre ad essere totalmente velleitaria, l’invocazione della crescita è anche indesiderabile. A differenza della pioggia.
Come mostro in un mio recente libro (Manifesto per la Felicità Come Passare dalla Società del Ben-avere a quella del Ben-essere, Donzelli, 2010) la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.
Quello che è importante in questa sede è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Decenni di studi in epidemiologia hanno dimostrato che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti.
Ad esempio il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.
La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società, nel senso che tutti i problemi di malessere sociale finiscono, prima o poi, per trasformarsi in problemi sanitari. È in questo senso che sostengo che una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio delle spese generate da una organizzazione sociale che produce danni al benessere.
In realtà la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.
Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. Infatti, similmente alla sanità, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.
Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo nel mio libro ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative (come una pesante tassazione della pubblicità televisiva) per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.
In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.
Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.
La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.
Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro. Inoltre la pubblicità si incarica di ricordarci ossessivamente che se temiamo di non essere soci di questa società, di essere esclusi, perdenti, sfigati, la rassicurazione per le nostre paure è nel comprare: «consumo dunque sono».
Tutti questi beni privati ci difendono dal degrado di qualcosa che prima era comune e gratuito. Un tessuto sociale di quartiere, di comunità, che non facesse sentire soli bambini e anziani, una città senza criminalità, più fiducia e conoscenza tra i vicini, una città vivibile. O promettono di difenderci, come fa la pubblicità con le nostre paure di esclusione, che fioriscono in un mondo di relazioni rarefatte e difficili.
Queste spese ci costringono a lavorare e produrre di più e aumentano il Pil, generano cioè crescita economica. Esse sono un motore dell’economia. Quando i legami sociali si disfanno emerge florida l’economia della solitudine e della paura.
Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perchè non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.
Oltre a queste proposte piuttosto innovative sulla gestione del debito pubblico, va notato che tutto sommato esiste un sistema antico a largamente collaudato per alleviarlo: una moderata inflazione. Essa riduce il valore reale di tutti i debiti, quindi anche quelli dello stato. L’inflazione non è una attesa di Godot come la salvifica invocazione della crescita. Per generare una inflazione limitata e controllata sappiamo come fare: possiamo usare politiche monetarie appropriate e ben note.