I nostri settori produttivi più innovativi sono oggi minacciati dalla concorrenza dei Paesi orientali. In Cina esistono colossi da 22 miliardi di dollari di fatturato, come Huawei che sono stati creati in soli 13 anni. La Cina e l’India hanno mercati interni enormi, risorse infinite di personale a basso costo che riesce a fare squadra in Azienda e con lo Stato. In Italia queste condizioni non esistono né potranno mai realizzarsi per cultura, storia e condizioni economiche.
L’Italia deve quindi focalizzarsi su settori dove non è determinante un mercato enorme e dove non è necessaria una enorme massa critica di risorse poco costose e capaci di fare facilmente squadra. In Italia ha funzionato il modello della “bottega artigiana” che ha creato innovazione e crescita sin dal Rinascimento. Oggi questo modello si traduce in un tessuto industriale costituito per il 99.9% da Piccole e Medie Imprese (PMI) che occupano da sole oltre l’80% della forza lavoro. I pochi grandi gruppi sono prevalentemente di matrice parastatale e spesso in operazioni di privatizzazione subiscono fenomeni di disgregazione.
Si può quindi innovare facendo leva sui pochi grandi gruppi rimasti oppure inventando un modello che prescinde dalle grandi imprese. La prima opzione sarebbe da preferire. Troppo spesso le innovazioni italiane possono essere valorizzate solo all’estero perché richiedono la forza commerciale di aziende di grandi dimensioni. Il telefono, le tecnologie radio, il PC, gli algoritmi di ricerca di seconda generazione sono stati inventati da Italiani. Purtroppo però queste innovazioni hanno creato vantaggio per imprese straniere: IBM, Marconi, Bell e Google.
Un modello efficace consiste nel far cooperare grandi aziende, PMI e Centri di ricerca. L’Italia raggiunge i punteggi più elevati nella ricerca universitaria che è finanziata dallo Stato e che, paradossalmente, viene poi in massima parte sfruttata all’estero. La ricerca è generata dai tanti “Leonardo”, i tanti geni che lavorano nelle “botteghe italiane” caratterizzate da molta capacità inventiva e spesso poca attitudine a fare squadra.
Il “vantaggio” della crisi di oggi è che i mondi della ricerca e dell’impresa sono obbligati a lavorare insieme per sopravvivere. Università e Aziende non hanno più risorse economiche e quindi solo lavorando insieme riescono a reperire i fondi necessari per finanziare le ricerca e per creare prodotti competitivi.
La ricerca industriale può costare poco anche in Italia se si impara ad attingere dalle risorse umane delle Università. E’ però difficile che un’azienda possa prendere innovazione dal mondo della ricerca e creare direttamente un prodotto. La ricerca universitaria è spesso troppo lontana o poco focalizzata rispetto agli obiettivi industriali. È opportuno quindi pianificare e indirizzare la ricerca facendo lavorare insieme i ricercatori e le industrie in maniera continua e regolare. Occorre creare una “catena di montaggio dell’innovazione di prodotto”: il marketing aziendale definisce il bisogno atteso dal cliente e dal mercato; si crea un gruppo di 8 -12 persone, una sorta di “bottega artigiana” focalizzata a realizzare un prototipo di prodotto in 9-12 mesi. Il termine catena di montaggio che evoca ripetitività non innovativa del lavoro sembra stonato ma con esso si vuole sottolineare invece una sistematicità e ripetitività del processo che deve condurre all’innovazione. E anche il fatto che l’innovazione oggi non nasce da una creatività sporadica ma da una programmazione sistematica. Il gruppo è composto da risorse dedicate provenienti dai Centri di ricerca universitari e non e dalle PMI. Si ottiene quindi una complementarietà dove i ricercatori innovano, le PMI realizzano e la grande impresa, con poche risorse, indirizza l’attività verso i desiderata del mercato: il cosiddetto “design to market”.
Le Università e le Aziende hanno linguaggi, modalità di lavoro e obiettivi diversi e gruppi congiunti rischiano spesso il fallimento. È per questo motivo che occorre creare centri di ricerca congiunti dove lavorano a contatto ricercatori “industriali” – cioè abituati a operare con logiche industriali e industriali – e ricercatori “misti”, cioè risorse di impresa abituate a contesti universitari.
Una grande azienda dovrebbe avere un centro di ricerca con molti gruppi che lavorano su prodotti diversi in parallelo. La catena di montaggio è costituita da questi gruppi che generano in maniera continua nuovi prototipi che la grande azienda industrializza per “sfornare” nuovi prodotti con regolarità. Ci si può attendere che su 10 gruppi di innovazione si riescano ad ottenere solo un paio di prototipi che le Aziende internamente riusciranno a trasformare in prodotti. I due prodotti risultanti ripagheranno ampiamente i costi degli otto insuccessi che comunque costituiranno esperienza per migliorare il processo di innovazione o per generare nuove idee o brevetti. I costi di questo ciclo d’innovazione possono poi anche essere finanziati dai tanti programmi di ricerca in modo da ridurre l’impatto economico.
Questo modello trova la sua applicazione nei settori dell’ICT ed in settori in cui l’innovazione incrementale con gruppi limitati di risorse di valore possono fare la differenza anche in orizzonti temporali limitati.
L’ applicazione del modello richiede il superamento di alcune criticità. Senza le grandi aziende il modello può funzionare con un’aggregazione di PMI in filiera dove ciascuna PMI concorre allo sviluppo di uno specifico componente. È comunque necessario raggiungere una forza commerciale adeguata per avere successo con il prodotto. Le start-up sono, per esempio, un modello debole in Italia. Senza copertura di grandi strutture (incubatori, grandi aziende), gli imprenditori rischiano di impiegare la maggior parte del tempo in attività amministrative e di non avere la capacità commerciale per sfruttare l’innovazione tecnologica creata.
Vi sono altri elementi che possono far fallire questo modello di catena di montaggio dell’innovazione. I programmi di finanziamento, per esempio, possono creare forti tensioni finanziarie per la poca certezza sui tempi di pagamento e sulla entità dei finanziamenti effettivamente incassabili. L’innovazione tecnologica non guidata dal marketing è un’altra causa di insuccesso. Il modello Apple funziona perché l’innovazione tecnologica è totalmente asservita ad acquisire un vantaggio competitivo che fa leva sui bisogni del cliente. Una gestione puramente finanziaria delle aziende tende a ridurre l’innovazione per il suo rischio associato decretando la morte dell’azienda stessa.
L’outsourcing dell’innovazione verso realtà all’estero è una altra chimera. L’innovazione è il vantaggio competitivo della Azienda. Se lo si affida all’esterno, non se ne ha più il controllo. L’outsourcing funziona poi nelle attività definite con requisiti stabili. L’innovazione è di per sè una attività non definita che richiede continui reindirizzamenti per avere successo commerciale.
Per garantire un vantaggio competitivo, l’innovazione di prodotto deve essere un processo continuo, una catena di montaggio dove gruppi formati da risorse provenienti da SME, enti di ricerca e aziende creano con regolarità nuovi prototipi di prodotto. La continuità e la contiguità nella relazione Ricerca-PMI- Industria e il valore delle risorse impiegate possono fare la differenza rispetto ai competitor internazionali.