Il mondo in cui viviamo è estremamente complesso e il livello di complessità aumenta in maniera esponenziale. Le ITC, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, quella che Luciano Floridi chiama “infosfera” (cfr. Luciano Floridi, La quarta rivoluzione industriale. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina 2017), stanno letteralmente provocando una rivoluzione di senso. Ci troviamo di fronte al terzo balzo in avanti dell’umanità, dopo l’invenzione dell’agricoltura e, molti secoli dopo, della macchina a vapore; due svolte che hanno cambiato e non solo l’economia, non solo il rapporto dell’uomo con la tecnica, ma anche – forse soprattutto – la percezione che l’uomo ha del suo posto nel mondo. Oggi le ITC stanno producendo un cambio di paradigma rispetto al nostro senso del sé, al modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con cui diamo forma al mondo. Il lavoro è uno dei grandi terreni di sfida su cui si giocherà questo nuovo senso del sé dell’umanità.
Il lavoro è un bene capitale, è parte della nostra identità: identità non solo personale, ma anche di gruppo. Questo riflesso comunitario non va dimenticato perché serve a metterci in guardia contro ogni riduzionismo, contro ogni economicismo che identifica il lavoro con una merce da scambiare sul mercato contro un salario. E’ una visione che purtroppo negli ultimi 30 anni ha affermato la sua egemonia. E che nemmeno la crisi è riuscita a scalfire, se non in superficie. Il lavoro, invece, è qualcosa di più. C’è una dimensione spirituale, etica e sociale che non può ridursi al solo reddito, nemmeno se è “di cittadinanza”.
Come possiamo quindi preparare noi stessi e le nostre figlie e figli a questo cambiamento, che cosa dovremmo insegnare loro, quali competenze professionali dovranno avere per comprendere quello che sta succedendo e orientarsi nel labirinto di questo “nuovo mondo”?
Non c’è una risposta diretta e univoca a questi interrogativi sul futuro. La prima cosa da fare, però, è sgombrare il campo dalla paura della tecnologia, perché se è vero che il futuro non si può prevedere (non del tutto, almeno) ciò non toglie che abbiamo il dovere di progettare il nostro domani e che molto dipenderà dalle scelte che facciamo oggi. Se ci lasciassimo guidare dalla paura sarebbe un dramma perché la paura è un sentimento che paralizza e non permette di esplorare con intelligenza le migliori possibilità che il futuro invece può offrirci per migliorare la nostra vita. Nel nostro Paese, purtroppo, prevale non da oggi, una narrazione pessimistica e rinunciataria sul futuro, specie su quello del lavoro. Basti considerare la fortuna che hanno libri che fin dal titolo – “Al posto tuo”, tanto per fare un esempio – profetizzano che il nostro posto sarà preso da robot di sembianze umanoidi.
Una narrazione che prende spunto da uno studio pubblicato qualche anno fa (tra l’altro messo in discussione da molti perché incrocia dati sulle professionalità non più attuali) da due studiosi di Oxford, Michael A.Osborne e Carl Benedikt Frey, secondo cui il 47% dei lavori in un futuro prossimo saranno sostituiti dalle macchine. In realtà non è cosi. Questo tipo di previsioni portano completamente fuori strada: la verità è che nessuno sa come sarà il mondo nel 2030, figuriamoci nel 2100. Creare nuovi posti di lavoro potrebbe addirittura, come scrive Yuval Noah Harari, essere più semplice che formare il personale per occupare quelle posizioni lavorative.
Secondo un citatissimo studio del World Economic Forum, infatti, il 65% dei bambini che oggi frequantano la scuola elementare “da grande”, cioè tra 15/20 anni, farà un lavoro che oggi non esiste nemmeno. E’ già successo qualche anno fa: l’invenzione degli smartphone ha creato nuovi lavori e modelli economici che prima semplicemente non esistevano, come quelli messi in circolo dalle “app” o dalle piattaforme, che trasformano il lavoro esistente creando occupazione. Certo, stare al centro di questi cambiamenti genera incertezza e paure e polarizza la discussione intorno al lavoro tra ottimisti e pessimisti. C’è chi pensa che la rivoluzione tecnologica in atto cancellerà migliaia, se non milioni, di posti di lavoro e immagina un mondo in cui una piccola parte dell’umanità lavora mentre il resto è in panchina vivendo di sussidi. E c’è invece chi, come me, pensa che, come già accaduto nella storia dell’umanità, le innovazioni e la tecnologia creeranno nuova occupazione e nuovi lavori. Questo è tanto vero che già oggi, nelle tante vertenze di cui mi sono occupato in questi anni di crisi, siamo riusciti a riportare lavoro nelle fabbriche italiane grazie a massicci investimenti in tecnologia e innovazione, organizzazione del lavoro e piani di formazione mirati per i lavoratori.
Questo non vuol dire che dobbiamo cullarci in un ottimismo panglossiano, ma che il futuro del lavoro è, ad oggi, un libro bianco ancora tutto da scrivere. Chi ai miei tempi, negli anni ’90 del secolo scorso, frequentava l’università sapeva che la metà delle nozioni apprese attraverso la formazione accademica sarebbero state modificate nell’arco dei successivi 15 anni. Questo lasso di tempo si è ridotto a 4 – 6 anni ed è sempre più disallineato rispetto ai lavori emergenti. Dobbiamo riflettere se non sia allora preferibile un approccio alla conoscenza “just in time”, cosa che implica una profonda revisione dei metodi di insegnamento. La tecnologia ha infatti la potenzialità di insegnare in modo personalizzato e adattabile alle esigenze dei singoli, anche se resto convinto sostenitore del fatto che serva una conoscenza umanistica diffusa che formi le persone a una visione integrata e aperta, cui poi affiancare piani formativi personalizzati e continui, appunto just in time.
Formazione e competenze rappresentano in questo senso il diritto al futuro. Il nostro è il paese del Rinascimento: dovremmo attingere a quell’esperienza per riformare i nostri sistemi educativi e formativi, immaginare nel futuro un’idea di “uomo universale” che inscriva le necessarie competenze tecniche nel quadro di un più vasto orizzonte di conoscenze umanistiche. Queste ultime sono necessarie anche per sostenere sul piano psicologico le prove che i sempre più numerosi cambi di lavoro comporteranno. La formazione, quindi, dovrà essere continua. Per questo ritengo che il mantenimento del valore legale del titolo di studio sia anacronistico: avrebbe più senso una certificazione delle nostre competenze aggiornata lungo tutta la nostra vita lavorativa. Una strada, questa, che sul piano contrattuale abbiamo ad esempio messo in campo in maniera embrionale ma molto pratica con l’accordo firmato con Manfrotto.
Nei prossimi 5 anni serviranno 469mila tecnici specializzati per soddisfare le richieste delle imprese, ma già oggi circa il 33% delle professionalità tecniche risultano introvabili. Tagliare i fondi alla formazione significa non avere chiaro quello che capiterà nei prossimi anni. Nel contratto metalmeccanico abbiamo inserito il diritto soggettivo alla formazione, proprio perché pensiamo che per combattere la skill obsolescence servirà un sistema formativo continuo. In un paese che ha un crescente skill mismatch tagliare sulla formazione vuol dire spianare la strada alla disoccupazione. Il 42% delle imprese metalmeccaniche non trova competenze digitali e il 48% non trova neanche quelle “generiche”.
Già oggi il nostro paese, di fronte ad una disoccupazione giovanile che vede oltre 6 milioni di under 35 inattivi, evidenzia una carenza cronica di tecnici specializzati necessari all’industria e alle evoluzioni tecnologiche in corso. Nella quarta rivoluzione industriale lo sviluppo della formazione terziaria professionalizzante degli Its (Istituti tecnici superiori) sarà fondamentale. L’82% dei diplomati Its entro un anno dal diploma ha trovato un lavoro a tempo indeterminato coerente col percorso di studi concluso. Per il 70% dei giovani si prospetta una sostituzione di molti lavori routinari e disumanizzanti, che verranno sostituiti da lavori ad alto ingaggio cognitivo: per questo bisogna puntare sugli Its. Tuttavia se in Francia sono 240 mila gli studenti che li frequentano e in Germania 880 mila, in Italia si arriva appena a 10 mila.
Per questo insistiamo come Fim Cisl sulla necessità di un sistema formativo duale e sull’importanza al suo interno dell’alternanza tra scuola e lavoro. Al tempo stesso riteniamo che il contratto di apprendistato debba diventare la forma principale di accesso al mercato del lavoro. Purtroppo l’attuale governo sembra andare in una direzione diametralmente opposta: taglia gli incentivi su Industria 4.0, cancella il credito d’imposta sulla formazione e sull’alternanza scuola lavoro riduce le ore al liceo da 200 a 80; negli istituti tecnici da 400 a 150 e negli istituti professionali da 400 a 180.
Una scelta che denota una visione politica di corto respiro e completamente miope rispetto alle reali necessità di un paese manifatturiero come l’Italia, settima potenza industriale al mondo (spesso lo dimentichiamo), la cui ricchezza principale è legata all’industria e alla manifattura. Il 52% dell’export e gran parte dei 47,5 miliardi di surplus commerciale del 2017 vengono dall’industria metalmeccanica.
La verità è che il nuovo lavoro si configura sempre più come un “progetto” di valore e portata diversi. Emergono forme di lavoro che non possiamo pensare di ingabbiare nel vecchio dualismo lavoro dipendente-lavoro autonomo né dentro gli spazi rigidi della fabbrica. Questo implica un ripensamento anche del modo di fare sindacato, per esempio dello spazio organizzativo, che diventa anche digitale. E allora come intercettare il nuovo lavoro, sempre più frammentato? Le assemblee sono uno dei momenti di più belli per chi fa sindacato con il cuore e la testa, ma servirà affiancarle ad altro; dovremo pensare a delle “app” ad hoc e lavorare su forme organizzative e comunicative del tutto nuove. Anche in questo la tecnologia può darci una mano: blockchain e piattaforme digitali sono solo alcune delle possibili direttrici di sviluppo della nuova rappresentanza.
Per chiudere, le politiche con orizzonti di 2-3 anni sono inefficaci e dannose, bisogna andare oltre i 20-30, mentre il “discorso pubblico” in Italia non supera l’orizzonte quotidiano. Il futuro del lavoro dipende da come immaginiamo il mondo di domani: con il 90% dell’umanità, come preconizza qualcuno, in panchina e che vive di sussidi, mentre l’1% lavora; oppure con un’umanità liberata dai lavori gravosi, rischiosi e ripetitivi che finalmente può esprimere il suo grande potenziale inespresso. E’ quella che chiamo la liberazione nel lavoro, non dal lavoro. Tecnologie come l’IA in questo scenario non sono nemiche, anzi, possono contribuire alla costruzione dei nuovi strumenti e processi di lavoro a cui siamo tutti chiamati a partecipare. Il futuro è destino ineluttabile è conseguenza del presente e nel bene e nel male, dipende da noi.
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