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Chi ha avuto veramente a cuore le sorti della democrazia e del mercato in questi anni? Quella parte della società civile che si è impegnata nell’equosolidale, nel microcredito, nelle cooperative sociali di reinserimento lavoro, in progetti di cooperazione per il sud del mondo e per promuovere il voto col portafoglio può dire di averlo fatto. Lavorare per la democrazia e il mercato vuol dire avvicinarci a quelle condizioni ideali nelle quali la più vasta platea dei cittadini è in condizioni di trarre giovamento dalla libertà d’iniziativa.

Promuovere pari opportunità, inclusione e accesso al mercato dei “non bancabili” nei paesi poveri, dei produttori agricoli che fanno fatica ad accedere al mercato delle categorie deboli nel nostro paese è stata una sfida che ci ha reso felici (come insegnano anche i padri laici del pensiero economico la felicità esiste solo quando dedichiamo la nostra opera al bene di chi ci circonda e facendolo cresciamo insieme) e che ha promosso democrazia e partecipazione.

E’ stato questo anche il grande ideale dei padri dell’Italia del dopoguerra che promuovendo crescita e solidarietà hanno allargato la platea dei beneficiari dell’economia di mercato vincendo rischi e tentazioni totalitaristiche.
Molti paladini del mercato non si accorgono invece di difendere il mercato solo a parole. Chiedendo sacrifici solo ai più deboli ed esentando i ricchi le diseguaglianze aumentano, il numero dei partecipanti “effettivi” all’economia di mercato si riduce e si finisce per minare le fondamenta del funzionamento del sistema economico. Le economie funzionano grazie agli acquisti del ceto medio e la domanda di caviale dei top manager non basta a sostenerle.

Colpisce l’intervista di Rubin, il consigliere economico di Clinton che dice che se oggi si applicassero le aliquote della presidenza Clinton (poi ridotte dalle presidenze successive) al 2 percento più ricco degli americani sarebbe possibile raccogliere 750 miliardi di dollari in 10 anni.
Ci sono momenti nella storia in cui i super ricchi diventano talmente poco lungimiranti da non capire che è meglio mollare un pezzo dell’osso piuttosto che rischiare di far crollare tutto e vedere fuochi di rivolta lambire le loro porte.
Le vicende inglesi devono farci riflettere.

Ricordo un’agghiacciante conferenza di un collega in un importante simposio internazionale che esaltava il modello di quel paese proponendo quello che a suo parere era il massimo ideale di felicità: uno scompartimento della metropolitana con persone che non si conoscono ma che sono felici perché la metro arriva a destinazione puntuale. Dietro il supermercato, niente. Sono questi gli esiti di una cultura che ha pensato che bastasse garantire l’arrivo puntuale delle metropolitane e l’abbondanza dei prodotti nei supermercati per creare le condizioni di vita felice di una società. Gli studi sulla felicità ci dicono al contrario che questa dipende dalla qualità delle relazioni interpersonali, dalla coscienza e dalla pratica religiosa, dal senso e dalla finalità che si danno alla propria vita e dalla capacità di avvicinarsi ai traguardi che ci si propone un poco alla volta giorno per giorno. E che gli altri possono trasformarsi in un inferno quando da vicini in carne ed ossa con cui creare relazioni diventano anonimi concorrenti nel lavoro e nel consumo il cui benessere (maggiore del nostro) ci rende infelici. Senza nulla togliere alle precise responsabilità individuali di ciascuno che può comunque farcela con le proprie forze in ogni circostanza, si può comprendere che quando la cultura in cui viviamo esalta tutto il contrario di quanto citiamo sopra contribuendo alla felicità e promuovendo la “libertà di” senza nessun riguardo per la “libertà da” e la “libertà per” (trovare un fine alla nostra esistenza) gli esiti possono essere cupi e disperati.
Non dimentichiamo queste lezioni nel momento in cui i vincoli internazionali ci impongono un aggiustamento delle nostre finanze pubbliche. Ci sono modi e modi di realizzarlo. Includervi il contributo di chi ha grandi patrimoni e quello di chi compra e vende sui mercati non è solo un fattore di giustizia ma anche di prudenza e di saggezza. Siamo all’altezza dei padri dell’Italia del dopoguerra che hanno saputo conciliare il rigore con le visioni ideali trovando un punto di incontro tra Einaudi, De Gasperi, Dossetti e La Pira con un’intelligenza politica capace di coniugare rigore, sviluppo e coesione sociale.

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