Le soluzioni in teoria erano pronte già qualche giorno dopo la crisi: creare requisiti di capitale che penalizzino il trading speculativo più passibile di rischi rispetto all’attività creditizia tradizionale delle banche commerciali (se non addirittura la Volcker rule ossia la separazione tra trading proprietario ed attività bancaria tradizionale), la regolamentazione dei prodotti OTC, requisiti di capitale più stringenti per le maggiori banche d’affari in virtù dei rischi sistemici che potrebbero derivare da un loro fallimento.
Con grande sorpresa le prime proposte apparse in finanziaria sembrano coerenti con questo approccio: una tassa sulle transazioni finanziarie persino più alta di quella proposta a livello internazionale e in discussione in sede UE (0.15 per mille) e una tassa del 35 percento sugli utili da trading delle banche.
La notte però non porta consiglio e i baldanzosi propositi iniziali alla luce del brusco ripensamento successivo appaiono piuttosto come dei timidi tentativi per saggiare il campo e vedere come reagiscono gli addetti ai lavori a proposte “rivoluzionarie” ma coerenti con l’analisi dei fatti. Il cambiamento però è talmente repentino e peggiorativo da contraddire in pieno tutte le riflessioni precedenti. Trasformare la tassa sulle transazioni, che avrebbe ridotto significativamente il trading ad altissima frequenza e pesato pochissimo sui piccoli risparmiatori, in un aumento esorbitante del bollo sul dossier titoli vuol dire andare nella direzione opposta colpendo proprio i piccoli risparmiatori e incidendo in misura praticamente nulla nei confronti di chi opera molto o con grandi somme.
Passare da una tassa che intende penalizzare l’attività di trading speculativo rispetto al credito tradizionale a un aumento generico sull’IRAP (che si spalma quindi in modo analogo sui proventi di tutte le attività bancarie) equivale anche in questo caso ad una marcia indietro clamorosa che sconfessa il proposito più volte manifestato di scoraggiare negli intermediari bancari le attività più speculative che mettono a rischio i depositi dei clienti.
Viene utile associare a queste decisioni il bell’articolo di Luigi Guiso sul Sole 24 Ore che evidenzia come le grandi banche continuino ad adottare allo sportello comportamenti contrari all’interesse dei clienti nell’investimento dei loro risparmi (consigliando in palese conflitto d’interesse di acquistare solo titoli della propria banca e non disdegnando di vendere al risparmiatore titoli complessi e non in linea con il profilo di rischio del cliente). In parte è anche colpa nostra perché, se ci rendiamo perfettamente conto che difficilmente avremmo un consiglio spassionato ed indipendente se chiediamo ad un concessionario di una certa casa automobilistica qual è la macchina che ci conviene comprare, non riusciamo a capire che lo stesso problema accade quando chiediamo al dipendente di una banca come è meglio investire i nostri soldi.
Insomma l’ipocrisia e il contrasto tra i proclami e i comportamenti nel mondo della finanza è stridente come non mai. Se la montagna partorisse almeno un topolino saremmo già un passo avanti. Il topolino già ci basterebbe.