|

C’è chi la decrescita la teorizza come soluzione al problema della sostenibilità ambientale dello sviluppo e chi la pratica nei fatti. Chi l’avrebbe detto che il nostro ministro delle finanze sarebbe passato alla storia come una via di mezzo tra Quintino Sella e Serge Latouche, esibendo pari virtuosità nel controllo della crescita della spesa pubblica e in quello (involontario) della crescita economica? Per avere un quadro un po’ più di lungo periodo bisogna andare oltre i dati congiunturali e guardare a un arco temporale più ampio.

Come abbiamo già sottolineato, il nostro paese è all’ultimo posto tra i 27 in Europa per tasso medio annuo di crescita del reddito pro capite tra il 2000 e il 2009 e l’unico con il segno negativo anche se di poco (-0.1 percento). La legge matematica della sostenibilità ambientale ci dice che per ridurre il tasso di crescita degli inquinanti pro capite si può agire soltanto su tre leve: ridurre la popolazione, ridurre il reddito pro capite oppure migliorare l’efficienza energetica, ovvero ridurre l’intensità di inquinamento per unità di output prodotta. I più ottimisti dicono che basti lavorare sul terzo fattore (efficienza energetica); i realisti invece dicono che non è sufficiente. L’Italia a quanto pare è all’avanguardia perché sta lavorando alacremente (pur senza volerlo) sui primi due fattori.
Ci si domandava in teoria se la decrescita fosse sostenibile. Ora stiamo sperimentando nei fatti i problemi che essa pone dal lato della dinamica dell’economia. Difficile quando si decresce onorare i propri debiti e creare posti di lavoro dando speranze di futuro ai nostri giovani. Il paese riesce a restare a galla sul fronte del debito pubblico con tagli della spesa e tentativi di far aumentare le entrate fiscali attraverso la lotta all’evasione. Nel frattempo stiamo attingendo a quelle scorte di ricchezza accumulate nel passato. Abbiamo ancora un rapporto ricchezza/PIL (oltre il 170 percento) che ci pone tra i primi nel mondo ma le scorte si stanno esaurendo e la solidarietà familiare non basta più.
Ma soprattutto il problema fondamentale è la mancanza di speranza e di futuro di un’intera generazione. I dati ISTAT suggeriscono che i giovani si dividono in larga parte tra disoccupati in cerca di lavoro, disoccupati scoraggiati e lavoratori precari. Difficile impostare il proprio futuro in queste condizioni e costruire legami affettivi stabili. Il dato più allarmante è che lo scoraggiamento investe ormai anche l’accumulazione di capitale umano. In questo modo i giovani si precludono il futuro in un mondo nel quale i poco scolarizzati e specializzati si troveranno sempre più a fronteggiare la concorrenza di masse di poveri provenienti da altri continenti che lottano per trovare il loro posto al sole con molta più vitalità ed energie dei poveri di ritorno del nostro paese. Se prima si diceva che bisogna trasformare le crisi occupazionali in opportunità investendo sul proprio percorso di formazione e istruzione, i dati sulla quota crescente di giovani che non studiano né lavorano suggeriscono che una parte importante di essi ha gettato la spugna e ha deciso di vivere di espedienti. Non aiuta a invertire questa tendenza il fatto che l’Italia sia uno dei paesi con il più basso rendimento della scolarizzazione per via di una struttura industriale fatta di piccole e medie imprese che molto meno delle grandi sono in grado di valorizzare la scolarizzazione.
La situazione italiana non presenta facili vie di uscita perché il debito oltre il 120 percento (e la manovra che dovremo fare in futuro per ridurlo) non consente molti margini di manovra. Inoltre non basta un solo intervento ma è necessario agire su più fronti. In fondo non c’è neanche bisogno di inventare molto. Basterebbe seguire l’esempio della Germania, un paese che, sottoposto alla stessa concorrenza dei paesi emergenti come il nostro, ha saputo puntare su ricerca, innovazione, formazione, crescita della dimensione d’impresa, qualità dei servizi e delle infrastrutture, rivoluzione delle fonti di energia rinnovabile, conquista dei mercati dei paesi emergenti raggiungendo livelli di crescita dignitosi e riuscendo anche a ridurre in questo decennio la propria impronta ecologica. La Germania dimostra che è possibile creare valore economico in maniera socialmente ed ambientalmente sostenibile. Noi abbiamo quella stessa tempra e sistematicità nell’impostare programmi e seguirli, lo stesso rigore morale nel rispettare le regole? Il mondo è cambiato e stavolta gli espedienti e la furbizia non bastano.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo!

FACEBOOK

© 2008 - 2024 | Bene Comune - Logo | Powered by MEDIAERA

Log in with your credentials

Forgot your details?