Era il 1978. Il compromesso storico aveva finalmente rotto gli argini al dialogo tra laici e cattolici; come allora, tanto tempo prima (1222) a Padova dove il coraggio di un gruppo di studenti e professori abbandonata l’università di Bologna, eretta con bolla papale, fondò l’Università di Padova (senza bolla papale) e in accordo con il Doge della Serenissima. Si sentivano oppressi dalla bolla papale, da cui dipendeva l’Università di Bologna e che costringeva il cammino della conoscenza dentro all’interpretazione delle sacre scritture limitando la libertà di conoscere.
La conoscenza è nella libertà; divenne il motto dell’università di Padova da cui nacque l’Umanesimo che poi invase l’Europa. Quel dialogo è stato foriero della scienza come oggi la conosciamo e Galileo Galilei ne fu il simbolo maturo. Cattolico e libero nel contrasto irrisolvibile su cosa è fede e cosa è conoscenza. Il dialogo a parti invertite proposto – nel 1978 – questa volta dai laici del PCI ai cattolici della DC – si concretizza in forma democratica di gestione-governo del potere statuale. E’ stato questo l’evento che rese possibile una stagione irripetibile di grandi riforme attuative, finalmente, della Carta Costituzionale che laici e cattolici avevano scritto insieme: la legge 180 chiuse i manicomi promettendo dignità umana alle persone malate di mente, disabili, povere e definite pericolose agli altri e di pubblico scandalo. E la legge 833 fondativa del sistema sanitario nazionale che ripropose la prevenzione e l’universalità egualitaria e libera, come asse portante delle cure.
Ed ancora la 194 che fece riapparire il corpo della donna e il rischio, scelto, della libertà. La legge che abolì le scuole differenziali per minori e gli istituti reclusivi e che riorientò, come le altre leggi, le Istituzioni a farsi carico delle comunità e delle famiglie per prevenire l’istituzionalizzazione escludente delle fragilità e le scelte obbligate. Il 1978 fu anche l’anno in cui l’on Aldo Moro fu ucciso per aver aperto il dialogo e insieme a lui morì la nostra giovinezza. Iniziò il lungo percorso, che tuttora dura, di deistituzionalizzazione, alla ricerca di metodi e pratiche di cura personalizzata e quindi comunitaria e famigliare finalizzata alla rimozione degli ostacoli: di natura sociale, fisica, economica e culturale che impediscono alle persone di essere membri attivi e partecipanti alla costruzione del benessere della comunità di appartenenza.
La chiusura dei manicomi è stata la matrice della prevenzione obbligata in tutto il sistema di welfare perché pose ai tecnici e alle Istituzioni la questione irrisolvibile della prassi del cambiamento continuo spegnendo la pace cimiteriale della reclusione e dell’allontanamento dallo sguardo delle diversità e della sofferenza. Permise di capire che molta parte delle scienze umane era soltanto ideologia e pregiudizio. Sviluppò pratiche alternative e flessibili e conoscenza scientifica capace di interpretare e spiegare i nuovi processi che scardinavano antiche certezze (come quella che dice che il cervello è una dotazione immodificabile da cui l’incomprensibilità, l’inguaribilità, la pericolosità di chi ce l’ha presumibilmente danneggiato. E ora sappiamo che è l’organo più plastico ed esteso dell’universo).
Le controriforme del 1992 giunte al termine di una continua denigrazione del sistema di welfare pubblico e dell’esaltazione del sistema privato di mercato, ha chiuso la stagione delle riforme e aperto la stagione del nuovismo, cambiando anche il linguaggio: le unità sanitarie locali governate dai rappresentanti della locale comunità e dei Comuni proprietari del patrimonio sono diventate aziende sanitarie patrimonializzate che comprano e vendono prestazioni fanno politica aziendale, caricano sui dirigenti la “budgettizazione” delle attività e devono solo render conto del pareggio di bilancio non dell’efficacia efficienza e uguaglianza delle cure prestate. Le comunità locali e i Comuni sono esclusi dalle decisioni e consultati come atto dovuto. L’assistenza è stata espulsa dalla sanità e affidata in delega al privato, la riabilitazione altrettanto.
Progressivamente il sistema di welfare – oggi chiamato “nuovo sistema di welfare” – è stato inghiottito dal mercato trasformando l’offerta in domanda, in prodotto da vendere e comprare, perdendo così il senso e la direzione. Non possiamo dimenticare che i sistemi di welfare non esistono se vengono separati dalla comunità e dalla finalità che li esprimono. Sono sempre stati espressione della comunità che li significa.
L’omologazione operata dal mercato dei sistemi di welfare li ha resi simili a ciò che si può vendere o comprare facendo scomparire anche il patrimonio della conoscenza cumulata. L’accumulo conoscitivo, infatti che si genera dalle forme di welfare diviene tradizione e orienta i cambiamenti necessari, contrastando le disuguaglianze di accesso a favore della coesione sociale sancita dagli atti costituzionali che scandiscono le regole e gli obbiettivi di convivenza.
Il capitale sociale di una comunità è costituito dall’equilibrio generativo del sistema di welfare e dalla produzione di ricchezza attraverso il lavoro, la scuola, la previdenza, l’assistenza, la sanità, strutturano da sempre le organizzazioni sociali. Di più: non esiste una aggregazione sociale che possa costruire una identità di comunità senza fondarla sulle quattro funzioni di benessere citate che definisco il sistema di welfare. Le società primitive come i moderni stati le prevedono come spina dorsale del patto di convivenza utilizzando risorse di ciascuno per allargarne il più possibile le possibilità di intervento remunerando e onorando coloro che si dedicano, autorizzati, ad insegnare, assistere, curare, precedere soccorrere e prevenire l’indigenza, la fragilità, l’impossibilità di concorrere a sentirsi fondamento del bene comune per età, malattie, invalidità, disabilità.
Da dove venga questa propensione identitaria è presto detto: dalla fonte di ogni diritto che è il primo assunto di responsabilità antropologica. Il diritto di ciascuno e di tutti di ad occuparsi degli altri senza alcuna finalità di potere o denaro. I diritti umani possono essere utilizzati per difendere i diritti individuali ma in questo modo si dimentica che i diritti senza responsabilità nei confronti di tutti gli altri rischiano di trasformarsi in un sopruso dei più forti, dei più ricchi sugli altri. Se i più favoriti non rinunciano a un po’ della loro fortuna, in diritto individuale, attraverso la progressività vera della fiscalità (azione collettiva e costituzionale) e della liberalità (azione individuale di responsabile diritto) l’uomo rischia di non essere più artefice responsabile del proprio destino e del proprio e altrui sviluppo.
Sono forse responsabile di mio fratello? Se rispondo no nessuno sarà responsabile di me e negherò di esistere riprendendo la forma antropofaga e rifiutando quella umana. Rompere il patto faticoso che ci rende uomini apre le porte alla paura, alla violenza e alla morte. I sistemi di welfare nascono da questo diritto e responsabilità, prima beneficente poi via via forme statuali ridistributive, universalistiche e basate su diritti e responsabilità diseguali per persone e comunità/famiglie diseguali. O meglio, dare di più a chi meno ha, facendo contribuire di più a chi più ha. La circolarità ridistributiva diviene ricchezza se si investe sull’uguaglianza “diseguale” (oggi tocca a me contribuire di più perché domani possa toccare a te).
Se l’investimento sull’uguaglianza diseguale è associata alla produzione di ricchezza/lavoro diviene responsabilità e distrugge l’assistenzialismo e la rendita dei diritti passivi e individuali). Produrre ricchezza è quindi indispensabile se vogliamo responsabilmente ridistribuire in modo proporzionale alle risorse accumulate. Da molti decenni la ridistribuzione è fatta dagli Stati accumulando debito per ragioni lontane dalla giustizia sociale e vicino al potere che genera consenso e privilegio. Non ridistribuiamo più ricchezza prodotta ma debiti caricati sulle spalle di chi verrà dopo di noi: i nostri figli e nipoti. Occuparsi degli altri è divenuto un debito ridistributivo che ci costa, solo di interessi, quasi la metà del sistema di welfare e la parte mancante la paghiamo di nostra tasca. Il mercato ha scatenato la sua potenza distruttiva sui sistemi di welfare universalistici separando i diritti dalle responsabilità e appropriandosi della redistribuzione della ricchezza trasformata in rendita che i diritti irresponsabili riproducono come privilegi.
La giustizia sociale la si può intraprendere nei sistemi di welfare trasformando i costi del welfare che vanno a nutrire il business e quindi il debito di tutti e il privilegio di pochi, in investimenti produttivi di lavoro, sviluppo umano e economico locale; partendo dalle persone e famiglie più deboli facile preda del mercato delle istituzioni pubbliche e private. E’ proprio la forza del desiderio di inclusione a voler essere utili agli altri che genera l’innovazione, la bellezza e il senso. Rende concrete e confrontabili le pratiche esperienze ed aumenta il capitale sociale e la coesione delle comunità.
Tutto questo ha bisogno di metodo che non divenga modello e acquisti invece le forme, i colori, le ombre e le luci dell’ambiente in cui si declina. Cambiare lo sguardo e disvelare le potenzialità inclusive partendo dalle persone escluse, dalla loro famiglie, dalla comunità e dalle locali istituzioni è metodo che produce la pratica del cambiamento. Il budget di salute di seguito contratto dentro a una proposta di legge nazionale ne è la possibile declinazione giuridica economica e scientifica. Questo è tutto ciò che ho imparato distruggendo manicomi dentro e fuori di noi e seguendo ciò che Freud scrisse su cosa è la salute mentale e come la si produce perché sia: leben und arbaiten (ora et labora) vorrei continuare per sempre.
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