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Proponiamo un’intervista a Chiara Giaccardi, docente di sociologia presso l’Università Cattolica di Milano, che ha seguito i lavori del Sinodo sui giovani. Le abbiamo chiesto di darci una lettura di questo evento con particolare riferimento al documento finale. L’intervista è stata realizzata da Fabio Cucculelli

Lei ha definito il Sinodo come una rivoluzione copernicana perché per la prima volta la Chiesa si mette in posizione di ascolto. Al termine dei lavori del Sinodo conferma questa impressione?

Sicuramente nelle intenzioni di Papa Francesco e nel modo col quale sia i padri sinodali che gli uditori e gli esperti hanno inteso questo cammino del sinodo c’è stata una rivoluzione copernicana, tanto è vero che il primo movimento suggerito dall’Instrumentum Laboris, il documento preparatorio, è “riconoscere”, che implica capacità di “ascolto”: questo è stato anche il tema che ha dato il via ai lavori. L’ascolto chiede di mettersi in una posizione di accoglienza e attenzione all’altro, piuttosto di chi deve dire qualcosa raggiungendo il più alto numero possibile di destinatari. Lo dico con il linguaggio della comunicazione: si è abbandonato il modello broadcasting, in cui la Chiesa è l’emittente che diffonde la sua verità e cerca di raggiungere un target il più ampio possibile, per mettersi invece nella posizione materna di chi prima di tutto cerca di ascoltare i figli in difficoltà, sfiduciati, in cerca, anche se magari cercano nel luogo sbagliato.

L’ascolto è una piccola rivoluzione, nel senso che la Chiesa cambia postura relazionale nei confronti del popolo dei fedeli. Anche perché non si pone come la chiesa istituzione versus i giovani, versus i laici: la Chiesa siamo noi, è il popolo di Dio in cammino coi suoi pastori. Questo aspetto è stato molto sottolineato. Non la Chiesa e i giovani, dunque, ma i giovani nella Chiesa. Rivoluzione copernicana significa anche rivedere la ‘geografia relazionale’ in chiave più inclusiva, e l’ascolto è appunto il modo di includersi e di accogliersi a vicenda. In concreto questo si è tradotto in un metodo molto preciso: ascoltarsi a vicenda, con attenzione e rispetto, prendendosi sul serio e collaborando tutti, nessuno escluso, al documento finale. È stato molto bello ascoltare insieme i padri sinodali e i giovani sia in aula – c’erano 34 giovani da tutti i paesi del mondo – sia nei circoli minori, in cui c’era modo di discutere in maniera più partecipata le varie questioni. Nel documento finale sono confluite anche le osservazioni venute dagli esperti e dai giovani in questo cammino comune. Niente di quello che c’è nel documento finale è precostituito e lo stesso Instrumentum laboris è stato completamente smontato, come aveva chiesto di fare Papa Francesco;  tutti hanno potuto parlare, essere ascoltati e contribuire attivamente e il risultato è stato veramente frutto di un cammino comune.

 

Una delle parole chiave del sinodo è stata accompagnamento. Come e in quale ambito il mondo adulto può accompagnare le nuove generazioni e quali sono gli ostacoli principali che impediscono di creare di questa cultura dellaccompagnamento.

Per come è stata affrontata la questione, l’accompagnamento è cruciale. Ma va precisato che non è un movimento unidirezionale. Non è uno ‘scortare’ per essere sicuri che l’altro arrivi alla destinazione prefissata senza sbagliare strada, bensì un movimento di reciprocità. Anche l’etimologia, da cum panis, suggerisce che accompagnare significa non solo ‘dire delle cose’ ma condividere del tempo, una convivialità, una concretezza esistenziale e non semplicemente un cammino spirituale che sia intellettuale e astratto. L’accompagnamento è un movimento di reciprocità che cambia anche colui o colei che accompagna, e anche questo è un piccolo sinodo: un percorso e un processo in cui si cresce insieme, e va fatto con attenzione. Ciò sia perché la questione degli abusi richiama alla consapevolezza che più la prossimità è stretta più occorre essere attenti e consapevoli del significato e del peso di ogni parola e di ogni gesto, sia perché è importante che gli accompagnatori siano qualificati, preparati con serietà a un compito così delicato. Soprattutto, è stato detto che l’accompagnamento non è mai individuale; è la comunitàà che accompagna. La solitudine dell’accompagnatore infatti è molto pericolosa, per lui (o lei) e per l’accompagnato. Reciprocità e comunità, insomma, sono le due parole chiave.

 

Il documento finale del sinodo lancia alcune sfide: dalla questione migratoria al rapporto tra le generazioni, dal tema delle forme di vulnerabilità al tema del protagonismo dei giovani e delle donne. Quali questioni sono oggi cruciali sul piano sociale, politico ed ecclesiale?

Intanto direi che ‘tutto è connesso’: una delle osservazioni molto giuste emerse è che non si possono affrontare le questioni isolatamente, ma occorre uno sguardo di insieme, che poi è lo sguardo di Papa Francesco nella Laudato sì, quando dice che accogliere è lo stesso movimento che riguarda l’embrione e il migrante; non ci sono due questioni distinte, in cui l’embrione è la bandiera dei conservatori e il migrante dei progressisti. O si accoglie la vita o non la si accoglie, sono due articolazioni di una stessa questione. Così la questione dei migranti è in rapporto alla globalizzazione, in rapporto all’impoverimento dei paesi di origine causata anche da una economia scriteriata che sottrae risorse alla popolazione che si trova poi costretta a cercare altrove le condizioni per sopravvivere. E’ stato considerato il punto di vista dei paesi da cui i ragazzi partono, sottolineando come questo sia un grande impoverimento. I giovani non sono affatto incoraggiati a emigrare; al contrario, si vorrebbero poter offrire le condizioni per una vita dignitosa nel loro Paese.

La questione migratoria è stata quindi affrontata ascoltando tutte le voci coinvolte e non come si fa da noi, guardando solo la punta dell’iceberg e solo unilateralmente il fronte di chi, tra virgolette, si sente ‘invaso’. Tra l’altro un aspetto molto reale emerso è come questi giovani emigranti non debbano essere visti soltanto come un problema da risolvere, ma possono essere una risorsa, perché sono dei ponti viventi tra i paesi, le culture, le religioni; quelli di loro che sono cristiani vivono generalmente la fede con grande intensità, con una capacità di testimonianza che sfida le persecuzioni, e possono svolgere un ruolo di ‘lievito’ nei gruppi giovanili. Quelli che non lo sono possono aiutare, raccontando esperienze di ecumenismo molto concrete nei loro paesi, a mostrare come i giovani, a differenza degli adulti, sono più capaci di superare le barriere e lavorare insieme per il bene comune. L’idea di non separare la questione delle migrazioni da quella della vocazione, ovvero del cercare un senso alla propria vita alla luce della fede, è uno dei modi in cui questa interconnessione delle questioni è emersa.

Anche il tema delle donne – perché tra i giovani vi sono anche tante giovani donne – è stato affrontato con grande passione e con passaggi importanti nel documento finale: per esempio, la valorizzazione della figura di Maria Maddalena come ‘apostola degli apostoli’. Molti tra i padri sinodali hanno affermato con decisione che il volto della Chiesa senza la presenza femminile è sfigurato e deforme, perché la Chiesa è fatta di uomini e donne. Quindi questa presenza femminile va riconosciuta e valorizzata molto più di quanto accada ora. Su questo c’è stato un grande consenso, che fa ben sperare per il futuro.

Vorrei anche dire che chi, con intento polemico da una parte e dall’altra, era interessato solo a sapere se l’etichetta LGBT, presente nell’Instrumentum Laboris, sarebbe rimasta nel documento finale sarà stato spiazzato. Da una parte, infatti, la questione della omosessualità e degli orientamenti sessuali è stata affrontata come qualcosa che va accolto e accompagnato senza discriminazioni o esclusioni. Dall’altra parte questa etichetta, questo acronimo, fa parte di un lessico molto connotato, che appartiene alla cultura occidentale, nella quale né gli africani e né gli asiatici si riconoscono. Nessuna rimozione dunque, ma la ricerca di un linguaggio che senza rimuovere le questioni ma anzi accogliendole, potesse parlare a tutti. La Chiesa fa il suo discorso, con il suo linguaggio, che non è quello giornalistico o quello delle militanze. Ma che non elude affatto le questioni. Per la stessa ragione è stata eliminata l’espressione ‘tolleranza zero’, troppo giornalistica e ormai slogan quasi vuoto, pur ribadendo con forza la massima fermezza contro ogni tipo di abuso.

 

Cosa è emerso da questo sinodo sul piano sociale o politico che dovrebbe essere raccolto?

Io credo che il piano sociale e quello politico non possano essere distinti. E’ stata richiamata la necessità di far sì che i giovani siano educati e allo stesso tempo incoraggiati alla cittadinanza attiva. La loro presenza non può limitarsi ai gruppi parrocchiali e al ruolo di animatori, per quanto possa essere importante. I giovani sono il presente e il futuro del mondo, come scritto nella lettera che i padri sinodali alla fine del sinodo hanno voluto indirizzare loro. Il tema della cittadinanza attiva implica un coinvolgimento sociale (riconoscere e denunciare le ingiustizie, lottare contro le disuguaglianze, favorire l’inclusione) e anche politico (attivare forme di sostegno ai più fragili, modificare i modi di affrontare le questioni che non funzionano e anche le leggi, quando si rivelano inadeguate) impegnando le persone perché le istanze di giustizia trovino forme nuove, capaci di cambiare il nostro modo di vivere in un senso più umano. Questo si lega a un altro tema emerso con forza, quello del protagonismo giovanile: che non è il protagonismo narcisistico, il sogno di avere milioni di follower, ma un desiderio di contribuzione. I giovani desiderano fare qualcosa e non di essere semplicemente riconosciuti dagli adulti. Desiderano portare il loro contributo di immaginazione, volontà, energia, capacità di gettare ponti là dove gli adulti continuano a erigere muri. Concretamente, per il bene di tutti.

 

Il sinodo ha dedicato attenzione al tema della rete. Oggi il confine tra relazioni virtuali e reali si va decisamente assottigliando. Come è possibile trovare un equilibrio virtuoso e come vivono questa dimensione le giovani generazioni?

Una conquista rispetto all’Instrumentum Laboris è stata quella di cancellare l’espressione “continente digitale”, coniata tanti anni fa, quando non era ancora chiaro quale sarebbe stato il ruolo della rete e la si pensava come un mondo a parte, da cui potersi tenere a distanza. Questo non è più possibile. Nel documento finale si parla piuttosto di “ambiente digitale”, dato che il digitale è ormai ovunque, parte costitutiva del mondo quotidiano e non solo per i più giovani. Anche la parola “virtuale” andrebbe ormai cancellata o almeno ripensata, liberandola dalla accezione di inautenticità: anche le relazioni interpersonali possono essere ‘doppie’ e anche faccia a faccia si può far finta di essere quello che non si è. Viceversa, si può abitare la rete con grande onestà relazionale. Questo dualismo secondo il quale l’autentico è nel faccia a faccia e il falso è in rete è un po’ troppo semplicistico e smentito dai fatti. Siamo gli stessi online e off line!

La sfida è comprendere che questo è un ambiente ricchissimo anche per la pastorale. Tanti ragazzi che vivono nei paesi in cui i cristiani sono una minoranza spesso perseguitata hanno testimoniato che si sono formati grazie a quello che hanno trovato in rete e che hanno incontrato tanti ragazzi cristiani come loro attraverso il web. Che quindi non è soltanto un pericolo! Tante volte è l’unico modo per rimanere agganciati alla comunità dei cristiani, oltre naturalmente alla preghiera. La rete è una risorsa straordinaria per l’evangelizzazione, dove i giovani possono evangelizzare non solo altri giovani ma anche gli adulti. Si è cercato perciò di sottolineare le potenzialità di un ambiente dal quale non ci possiamo dissociare. Come la città. Possiamo dire come era bello quando si viveva nel villaggio, ma ora viviamo tutti nelle città, con i costi ma anche i benefici. E anche se non usiamo l’automobile la città ha preso una forma che incorpora la mobilità, ed è inquinata dai tubi di scappamento. Non ha senso rimpiangere il bel tempo che fu. Piuttosto, ha senso chiederci come possiamo vivere in questo ambiente non soltanto adattandoci, ma dandogli forma. Non solo come ridurre l’inquinamento, ma come immettere ossigeno. Non c’è un determinismo secondo il quale la rete costringe a determinati tipi di rapporto o a determinate forme di conoscenza, a meno che noi non ci rassegniamo a questa idea (sbagliata).

 

In che modo il mondo degli adulti può consentire ai giovani di esprimere la loro generatività?

Il sinodo è un movimento molto generativo e non a caso anche da qualche padre sinodale un po’ conservatore è stato alla fine messo in discussione. Perché il sinodo è generativo? Perché mette al mondo, rigenera, accompagna, si prende cura e poi lascia andare. E’ stato detto che i preti non hanno più tempo di accompagnare perché sono oberati da faccende burocratiche, perché non cedono alcuni compiti che i laici potrebbero svolgere molto meglio per paura di perdere il controllo su alcuni processi. La Chiesa sinodale è generativa perché si prende cura e anche dà delle responsabilità, fa crescere le persone. Nel documento c’è il tema dell’autorità come “fare crescere”; far crescere significa consegnare un mandato di esercizio responsabile della libertà. In questo senso la Chiesa invita i giovani a essere generativi; ma per invitare a essere generativi deve esserlo lei stessa. Non si può dire ai giovani di essere generativi se non li si coinvolge in un processo che culmina col lasciare andare, con l’autorizzare. Occorre avere fiducia nella loro capacità di portare qualcosa di buono nel mondo. Questo è stato detto da tantissimi, perché i giovani hanno veramente dato prova di grande maturità e di grande spirito di iniziativa. Ciò che fanno lo fanno veramente bene; alla fine hanno anche allestito uno spettacolo finale da applausi!

Questo sul piano ecclesiale, ma su quello più generale?

Il documento finale si rivolge a tutti i giovani, perché tutti possono contribuire a questa rigenerazione. Non soltanto i credenti, non soltanto i cristiani. Con i giovani come ‘ponti’ una alleanza con le altre religioni è possibile. Uno degli esperti, un giovane vescovo libanese, ha raccontato esperienze molto belle con i giovani di religione ebraica e islamica, che lavorano insieme sul tema della giustizia. Questo è un modo di essere generativi che può rigenerare la Chiesa là dove invece gli adulti faticano ad andare: oltre le divisioni che storicamente sono diventate molto rigide, ma che possono e devono essere superate. I giovani hanno dato prova di maggior capacità di libertà e di fraternità e veramente possono rigenerare non soltanto la Chiesa, ma tutta la società.

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