Il dibattito sul declino del nostro paese si sviluppa prevalentemente attorno alla valutazione (peraltro di fondamentale importanza) di soluzioni tecniche che potrebbero sbloccarlo. Tra di esse la creazione di contratti di lavoro con tutele progressive, la combinazione di flessibilità e sicurezza (flexsecurity), la crescita media dimensionale delle nostre imprese necessaria per essere più competitivi sui mercati esteri, la riforma della giustizia civile, la costruzione di alcune infrastrutture chiave, l’investimento in ricerca e molto ancora.
In questo dibattito manca forse l’attenzione su un altro aspetto fondamentale del problema. Le grandi fasi di sviluppo nella storia economica dei diversi paesi sono alimentate da una molla profonda che stimola stabilmente l’operosità individuale e sta dietro una creazione sostenuta di valore economico.
L’analisi delle motivazioni intrinseche delle decisioni produttive in economia e psicologia (e negli studi sulle determinanti della felicità) ci dice che le molle più forti dell’agire umano sono fondamentalmente due.
La prima, quella dell’uscita dalla propria condizione di povertà, è ciò che rende oggi sempre più insoddisfatti i cittadini dei paesi a basso reddito che, aumentando l’intensità dei confronti con le società a maggiore benessere, sono sempre più spinti a cercare fortuna altrove o a lavorare sodo per crescere economicamente nel paese in cui vivono. Questo fattore ha sospinto il nostro paese nel dopoguerra e alimenta oggi i flussi migratori e il processo di convergenza condizionata attraverso il quale gran parte dei paesi a basso reddito cresce ad un tasso superiore a quello dei paesi sviluppati. Il secondo fattore è quello del lavorare non per se stessi ma per i nostri simili (i propri cari, le persone che hanno meno) o più, generalmente, per il progresso dell’umanità in diverse direzioni (scienza, arte). I classici del pensiero economico come Adam Smith e John Stuart Mill hanno scritto pagine molto belle su questo tema. John Stuart Mill sviluppa a proposito una sorta di concetto di “serendipità” della felicità affermando che chi cerca la propria felicità non la trova mentre chi si dedica ad un’attività di qualche utilità per la collettività trova anche la propria felicità lungo la strada.
Sono queste probabilmente le due motivazioni più forti che danno la carica a una parte importante dell’umanità quando si alza la mattina per andare al lavoro e la spingono a impegnarsi al massimo facendo più di quanto dovuto o necessario.
Esistono in realtà almeno altri due moventi del nostro agire produttivo. Sono quelli che ci spingono a lavorare per il nostro ulteriore arricchimento (quando partiamo già da condizioni di benessere) e che ci stimolano a farlo per far meglio dei nostri simili con cui ci confrontiamo abitualmente (il cosiddetto gruppo di riferimento). Ma aumento del benessere per chi è già sazio e invidia sono due molle molto meno potenti dell’impegno per il bene comune e della lotta per uscire dal bisogno.
Questo dovrebbe aiutarci a capire alcune ragioni profonde del nostro declino, al di là dei molti errori di politica economica che, una volta risolti, potrebbero fornirci una base migliore per ripartire. Il nostro paese vecchio, ripiegato su se stesso e concentrato sul proprio particolare (come se il problema fosse trovare un posto per qualche migliaia di immigrati sbarcati a Lampedusa sul territorio nazionale pronti a fare quei lavori umili per i quali la domanda supera l’offerta) non ha più né l’energia né l’entusiasmo di chi esce dalla povertà (e scopre il benessere), né lo slancio di una motivazione ideale che spinge lo scienziato, l’artista, il benefattore a investire gran parte della propria vita nella propria opera.
L’economia prospera in presenza di fiducia, progetti che riflettono speranza nel futuro, norme sociali e morali che sostengono quelle legali motivando i cittadini a quel senso civico necessario per il corretto funzionamento del sistema. La politica economica ottimale per migliorare le regole di funzionamento del sistema è condizione necessaria ma non sufficiente per la ripartenza. C’è bisogno di una visione ideale che alimenti uno sforzo. Il problema è che le soluzioni possibili appaiono al momento soluzioni per alcune minoranze ma non soluzioni in grado di muovere le masse. Il rischio è che il paese, non trovando un ideale in grado di animare una parte consistente della popolazione, continui a scivolare lentamente verso il basso verso una povertà di ritorno dalla quale è molto più difficile rialzarsi.
Economia. La ripartenza italiana
L’Italia è l’unico paese tecnicamente in “decrescita” tra i 27 dell’UE: se consideriamo la media degli ultimi dieci anni, il tasso di crescita del reddito medio annuo pro capite è negativo (anche se molto debolmente ovvero dello 0.1 percento all’anno). Per capire la nostra differenza rispetto agli altri Pesi, la seconda peggior performance è quella del Portogallo che cresce allo 0.5 percento mentre il paese che cresce di più, la Bulgaria, viaggia al 5.3 percento all’anno. Dietro questo dato aggregato esistono in realtà due drammi: quello del Mezzogiorno il cui gap con il resto del paese resta profondo e quello dei giovani, la “generazione perduta” che non riesce a trovare un lavoro stabile e ad uscire dalla disoccupazione o dal precariato.
Economia e Finanza