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L’anno dell’economia italiana finisce con una crisi finanziaria globale (evitata da noi nella sua componente di fallimenti bancari) che ha aggravato, per i suoi effetti su export e domanda mondiale, il lungo declino dell’economia reale dell’ultimo decennio dipendente dall’insufficiente capacità del paese di adeguarsi alla rivoluzione dell’integrazione globale dei mercati. La classifica dei differenziali dei rendimenti dei titoli di stato rispetto agli analoghi titoli tedeschi (che misura in sostanza il rischio della finanza pubblica dei diversi paesi) ci dice chiaramente che, dopo la crisi finanziaria non siamo più gli ultimi della classe, sopravanzati da Grecia, Irlanda, Portogallo e persino Spagna.

 Le cause per le quali questi paesi appaiono oggi più a rischio di noi sono diverse. In Grecia i conti sono stati truccati e il debito pubblico è esploso. In Irlanda le banche, che avevano attivi enormi rispetto al PIL del paese, sono state coinvolte in pieno nel crollo dei valori della finanza derivata facendo esplodere il deficit del paese nonostante un debito pubblico di partenza non elevato. In Portogallo il problema è ancora la finanza pubblica e la bassa crescita mentre in Spagna il crollo della bolla immobiliare e il deficit del paese sono i principali responsabili. L’Italia in sostanza recupera posizioni grazie al buon comportamento delle proprie banche e alla scoperta, da parte dei mercati, che il problema del debito non è solo quello della finanza pubblica ma riguarda piuttosto l’aggregato di debito pubblico, delle famiglie e delle imprese.
In tale prospettiva i mercati hanno riscoperto, dopo la crisi, un’eccellenza del nostro paese, tra i migliori in termini di bilanci delle famiglie (elevata ricchezza e buona distribuzione della stessa almeno rispetto agli altri paesi europei, basso debito su reddito). Non dimentichiamo che più del 70 percento degli italiani è proprietario di prima casa e che una percentuale elevata ne possiede anche una seconda.
Paghiamo però pesantemente la crisi finanziaria sul versante reale. Guardando al dato di lungo periodo impressiona che l’Italia abbia avuto nell’ultimo decennio il tasso di crescita medio annuo del reddito pro capite più basso tra tutti i 27 paesi dell’Unione Europea (negativo e prossimo allo zero) anche se parte di questo fenomeno è attenuata dalla vasta area di economia sommersa o illegale. La conseguenza di questo lungo declino è “la generazione perduta” con un quarto dei nostri giovani disoccupati. Insomma viviamo il paradosso di un paese “wealth rich” e “cash poor” un po’ come quei nobili decaduti (vengono in mente alcuni film di Totò) che hanno dei patrimoni illiquidi, non lavorano e quindi non percepiscono flussi di reddito e sono dunque costretti a vivere di espedienti o a vendere poco a poco i gioielli di famiglia.
Una delle immagini più preoccupanti del paese e quella che ci viene data dalla prospettiva della famiglia e della natalità. Le reti di solidarietà familiari hanno da sempre sopperito con un’azione di supplenza alla mancanza di un intervento della spesa pubblica in materia di famiglia (lo stato non si preoccupava di intervenire sapendo dell’esistenza di queste reti o lo faceva in maniera assolutamente squilibrata attraverso il solo strumento delle pensioni, quindi dando tutto il potere economico alle vecchie generazioni). Oggi siamo in mezzo al guado con i legami familiari che si disgregano e una spesa del welfare familiare assolutamente insufficiente e inferiore a quella degli altri stati europei. Il bassissimo tasso di natalità, di gran lunga inferiore a quello di riproduzione della popolazione e degli altri paesi europei, oltre a segnalare una preoccupante mancanza di speranza nel futuro, comincia a diventare un problema serio in termini previdenziali. Non basta il passaggio al sistema contributivo e la speranza che saranno i giovani immigrati a contribuire all’equilibrio del sistema pensionistico a compensare questo buco demografico.
Ma allora come uscire da questa impasse? L’episodio della Fiat deve aiutarci a capire come sta cambiando il mondo. Se puntiamo a un modello di impresa dove il costo del lavoro rappresenta la componente più importante non riusciremo a venirne fuori. L’enorme esercito di poveri nei paesi emergenti disposti a fare quei sacrifici che gli italiani hanno fatto per emergere nel secondo dopoguerra è disposto a lavorare a salari molto più bassi (e a tutele molto inferiori) delle nostre. Dobbiamo aumentare la nostra competitività puntando su risorse geograficamente localizzate e quindi non delocalizzabili (turismo, risorse locali ma non solo) o andando a vendere e produrre nei mercati dei grandi paesi emergenti dove la domanda è oggi molto sostenuta. Lo stato deve ridurre i costi di sistema ammodernando le infrastrutture e riducendo i costi dei servizi alle imprese. Nell’era della globalizzazione siamo perdenti se veniamo risucchiati nella parte bassa della scala dei talenti e dell’istruzione, dove siamo altamente sostituibili, ma possiamo competere solo se eleviamo il livello di innovazione e investiamo in formazione. È quello che stanno facendo tutti gli altri paesi europei mentre noi stiamo pericolosamente abbandonandoci all’improvvisazione. Torna in questo caso prepotente il difetto principale del nostro paese: l’incapacità di tradurre una genialità estemporanea in una programmazione di medio-lungo termine, di dare continuità e sistematicità alle nostre intuizioni attraverso un impegno costante e ripetuto nel tempo.
In un momento in cui scompare un grande civil servant come Tommaso Padoa Schioppa viene in mente il suo impegno europeista e le considerazioni di Ciampi sulla necessità di una nuova spinta ideale in grado di alimentare un nuovo “miracolo italiano”. La nostra versatilità ha bisogno di un punto di gravità valoriale senza il quale restano soltanto i nostri difetti peggiori: particolarismo e opportunismo. Nel laboratorio dell’economia civile e solidale pensiamo che questa spinta possa nascere dall’obiettivo di coniugare crescita economica con creazione di valore sociale ed ambientale, “creando valore con i valori”. La sorgente più profonda e stabile della produttività sono infatti le motivazioni intrinseche a loro volta messe in movimento dall’obiettivo di favorire l’inclusione degli ultimi e di promuovere pari opportunità. Sono ideali e le visioni che animano già una parte importante, anche se minoritaria, dell’economia italiana. L’interrogativo è se potranno diventare un giorno la spinta propulsiva di un intero paese.

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