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La progettualità dei giovani e delle donne e la loro presenza nei processi decisionali e nella sfera pubblica è un requisito essenziale per il successo di qualsiasi politica di sviluppo e la buona salute della democrazia. E insieme un antidoto alle dinamiche che impongono precarietà, incertezza e modelli sempre più selettivi di accesso ai diritti

Come afferma da tempo il demografo Alessandro Rosina, in Italia esiste una situazione paradossale in cui i giovani sono contemporaneamente pochi e sprecati. Non sorprende, dunque, che questi giovani spesso decidano di andare a realizzare altrove – dove le opportunità sono maggiori – i propri progetti di vita e di lavoro. Sì, perché non di rado si tratta di giovani con elevata istruzione, sui quali il nostro Paese ha investito una discreta somma che non capitalizza, rinunciando alla loro capacità di essere fattore di modernizzazione e di sostenere comportamenti ed atteggiamenti inediti che preparano il terreno all’affermazione del nuovo, integrandolo con l’esistente.

La cecità di un simile approccio può essere illustrata parafrasando quanto Padre Flor Maria Rigoni, scrittore, poeta e scalabriniano, ha affermato in una recente intervista. Riferendosi alle società occidentali che si oppongono all’accoglienza nei confronti dei migranti, egli sostiene che esse dicano di se stesse solo che sono vecchie, e che chi alza muri o scava trincee per tenere lontani gli altri sta in realtà scavando la propria fossa. La vita, in altri termini, è dinamismo, cambiamento, trasformazione. Avvicendamento, nel caso delle generazioni. Ostacolare questo – oltre a rappresentare un’operazione di fatto illusoria – genera uno iato che frantuma la società e rischia di interrompere il corso naturale delle cose.

Sono numerosi gli studi e i dati disponibili che mostrano l’esclusione operata dal mercato del lavoro nei confronti dei giovani, selezionati solo quando sottopagati, sotto-inquadrati rispetto alle loro qualifiche e precari rispetto alla forma contrattuale. I cosiddetti millenials, che sembrerebbero avere tutte le caratteristiche “giuste” di adattabilità e flessibilità per essere i lavoratori ideali di imprese che ormai competono su scala globale, assumono invece i tratti di una generazione sacrificata, condizionata anche per l’avvenire. Una sorta di «buco» nella continuità del ciclo storico.

Sta di fatto che in un luogo dove si spreca una tale riserva di energia, dove – per utilizzare una metafora sportiva – si tengono dei campioni in panchina e si decide di non farli giocare, lo sperpero maggiore è quello che si consuma nei confronti delle giovani donne. Se, infatti, tanto il genere quanto la generazione scontano divari, non stupisce che la situazione peggiore si collochi all’intersezione fra le due variabili strutturali.

Più istruite dei loro coetanei maschi (le giovani tra i 25 e i 34 anni possiedono la laurea nel 32,9% dei casi secondo i dati Eurostat, mentre i giovani uomini non raggiungono il 20%) ma fortemente penalizzate nel mondo del lavoro, le giovani italiane fanno un miglior uso del tempo anche quando non lavorano, maturando, ad esempio, le scelte in merito ai progetti riproduttivi, mettendo a frutto competenze trasversali anche in ambito sociale e abitando diverse sfere vitali.

Ogni giorno, però, sperimentano i vincoli che si frappongono alla propria realizzazione, che riguarda non solo le condizioni di forte penalizzazione nel mondo del lavoro, ma anche la sopravvivenza di un contesto culturale che fatica ad andare oltre modelli di ruolo tradizionali e stereotipati.

Una recente ricerca di Iref e Coordinamento Donne Acli ha ben evidenziato le condizioni di svantaggio vissute dalle giovani donne (18-29 anni) nel mercato del lavoro italiano, in termini di precarietà occupazionale, segregazione professionale, sovraistruzione, assenza di percorsi di carriera, preoccupazione circa la continuità del rapporto di lavoro. Benché sia una realtà diffusa fra i giovani in generale, le ragazze presentano una maggiore fragilità: l’indice che sintetizza alcune delle condizioni citate mostra, infatti, che la loro concomitanza è presente nel 47,5% della componente maschile, ma quasi nel 60% dei casi quando si tratta delle giovani donne. Dunque, tra le ragazze sono ancora oggi presenti tutte le criticità classiche che riguardano il lavoro femminile. Parallelamente non si notano cambiamenti circa l’assegnazione dei modelli di ruolo, a partire dall’articolazione della propria giornata, che vede le giovani molto più coinvolte nelle faccende domestiche rispetto ai coetanei maschi (64,1% contro 47,7%), i quali possono “permettersi” all’opposto di dedicare più tempo allo sport (33,6% contro 22,6%), ai social network (38,2% contro 24,4%) o di non fare niente di particolare (14,5% contro 8,6%).

Gli strumenti di verifica elaborati a livello internazionale mostrano quanto sia poco accogliente il nostro Paese per le donne e l’immobilismo che caratterizza l’Italia da questo punto di vista: ad esempio, il Global Talent Competitiveness Index (GTCI), calcolato da Adecco e dall’Istituto INSEAD per valutare la capacità che i Paesi hanno di attrarre i talenti di medio e alto livello necessari oggi nel mondo del lavoro, evidenzia il ritardo dell’Italia proprio rispetto agli indicatori di genere, collocandola alla 117esima posizione su 119 Paesi considerati in totale.

Ma anche altre misure, come il Global Gender Gap Index (GGGI) elaborato dal World Economic Forum e l’indice calcolato dallo European Institute for Gender Equality (Eige), evidenziano la distanza che ci separa dall’Europa in questo ambito: il primo rileva che per opportunità disponibili per le donne e livello di partecipazione femminile al mondo dell’economia e del lavoro il nostro Paese raggiunge la 118esima posizione sui 144 Stati considerati; il secondo, valutando la parità di genere nel dominio del lavoro, colloca stabilmente l’Italia all’ultimo posto in Europa, lontana dalla media comunitaria più di 8 punti percentuali, con ben poche variazioni negli ultimi dieci anni.

Non è allora un caso che, come confermano i dati Aire (l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), già in 7 regioni italiane la metà o la maggioranza dei giovani fra i 20 e i 30 anni che lascia l’Italia sia donna. In effetti, anche la citata ricerca Iref/Coordinamento Donne mostra che è in particolare il contesto lavorativo italiano ad amplificare i fenomeni negativi a carico delle donne, rappresentando un terzo livello di svantaggio che va a unirsi al genere e alla generazione.

Quando restano in Italia le giovani donne appaiono fortemente condizionate dalla realtà lavorativa e culturale che vivono, tanto da dare risposte spesso rinunciatarie alle difficoltà affrontate: la medesima ricerca mostra, infatti, un’elevata propensione delle giovani intervistate a lavorare in deroga rispetto ai propri diritti nel 28,6% dei casi, contro il 20,5% dei coetanei maschi. Del resto, la condizione giovanile sarebbe già di per sé sufficiente a produrre disorientamento e fatica, dal momento che ai giovani è richiesto di costruire il proprio progetto di vita e la propria identità dentro il cambiamento, con scarsa possibilità di controllo e di previsione su quanto accadrà. La pressante richiesta dell’adattabilità pesa soprattutto sulle donne e rischia di produrre un senso di impotenza rispetto alla possibilità di incidere significativamente sulla propria vita. Inoltre è probabile che produca un senso di solitudine nell’affrontare un mondo del lavoro più che esigente riguardo i sacrifici richiesti e arduo da modificare.

Da tali premesse discendono alcuni rilievi. Il primo di metodo, che consiste nella fecondità di un approccio che guardi congiuntamente agli squilibri di genere e di generazione, rilevandone le somiglianze nei meccanismi di esclusione e nelle conseguenze prodotte, allo scopo di rintracciare possibili soluzioni.

Il secondo di merito, che richiama la necessità assoluta di accogliere finalmente le differenze di genere e di generazione riconoscendo il contributo peculiare che ciascuna può dare, adeguando i contesti a tale diversità. Ciò significa essenzialmente due cose: aprire tali contesti alla logica della partecipazione e stabilire una nuova alleanza in primis con le giovani donne di questo Paese. Un patto che innescasse processi di cambiamento ad ogni livello e in ogni ambito, aprendo tempi e spazi alle donne specialmente nel mondo del lavoro e nella vita pubblica, avrebbe peraltro il sapore di una vittoria collettiva, dal momento, ad esempio, che diversi economisti quantificano intorno a 9 punti percentuali la crescita del Pil per l’Italia nel caso di aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro dall’attuale 49% circa ad un ipotetico 60%.

La progettualità dei giovani e delle donne e la loro presenza nei processi decisionali e nella sfera pubblica è un requisito essenziale per il successo di qualsiasi politica di sviluppo e la buona salute della democrazia. E insieme un antidoto alle dinamiche che impongono precarietà, incertezza e modelli sempre più selettivi di accesso ai diritti.

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