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Ormai tutti hanno capito che non ha senso scaricare solo sulle spalle dei soliti contribuenti le colpe dell’aggravamento dei debiti pubblici causati per lo più dal soccorso dei governi e delle banche centrali alle istituzioni finanziarie che hanno generato la crisi. Segnali importanti si muovono con il consiglio dei leader dell’UE riunito per procedere nella proposta di una tassa sulle istituzioni finanziarie affinché queste ultime paghino il loro contributo ai costi della crisi.

In prima linea su questa proposta la Merkel e Sarkozy che chiedono che i fondi ottenuti con la tassa sulle banche e con la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie vengano messi a disposizione per ridurre l’impatto della crisi attuale e delle eventuali crisi future sui contribuenti. Le cifre in gioco sono impressionanti e il fatto che tale proposta non sia stata ancora varata fa gridare allo scandalo. Con una tassa dello 0,5 per mille è possibile raccogliere, al netto dell’elasticità sul volume di transazioni, circa 655 miliardi di dollari. Utilizzabili sia per ridurre l’impatto della crisi sui bilanci pubblici che per risolvere alcune delle principali piaghe che colpiscono l’umanità (ne bastano tra i 15 e i 30 per garantire la scolarizzazione primaria obbligatoria in tutto il mondo).

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Qualcosa non funziona nei mercati finanziari e nelle ricette rigoriste delle istituzioni europee dove si continua a guardare troppo al solo debito pubblico e non al debito aggregato di stati, imprese e famiglie. Secondo quest’ultimo indicatore, l’Italia sarebbe al 235.9 percento ben al di sotto della media UE (265 percento) e di paesi come Francia e Regno Unito.  Fa impressione che non sia un problema per i mercati la situazione finanziaria degli Stati Uniti con un rapporto debito/PIL che corre rapidamente verso il 100 percento e un disavanzo del 9 percento. Qual è il cambio euro-dollaro che mette in equilibrio le due aree (USA ed UE) e le pone al riparo da crisi di debito? Una discesa ulteriore dell’euro (almeno fino a 1,10) aiuterebbe la ripresa europea ma metterebbe in affanno gli Stati Uniti rischiando di far emergere il loro problema finanziario.
Un fatto grave nella nostra finanziaria è la minaccia dei tagli agli incentivi verdi che in questi anni hanno prodotto decine di migliaia di occupati e miliardi di investimenti, facendo fare al nostro paese un balzo in avanti nella quota di energia prodotta dalle rinnovabili. Il futuro più desiderabile è quello di una produzione di energia pulita e diffusa senza l’angoscia dello smaltimento delle scorie nucleari e l’inquinamento prodotto dalle altre fonti. Finché non possiamo farne a meno dovremo utilizzare le altre fonti di energia, ma la decisione di tagliare gli incentivi ad un settore che rappresenta il presente e la speranza del futuro ricaccia il nostro paese indietro di anni. E’ questo ciò che gli italiani vogliono? Il governo ha capito la posta in gioco?
Invece di guardare a queste questioni strategiche, decisive per i prossimi anni, si discetta sull’ineluttabile, ovvero su un accordo come quello di Pomigliano d’Arco con il quale datori di lavoro e lavoratori hanno definito un livello di produttività che consente di salvare migliaia di posti di lavoro e la produzione di fronte alla sfida ineludibile del mercato globale. In un settore come quello automobilistico, dove non esistono alternative a questo modo di competere. L’unica strada per vincere la sfida della globalizzazione senza comprimere le tutele e il costo del lavoro è quella di contribuire alla crescita dei salari nei paesi poveri nel lungo periodo (mettendo in moto meccanismi che ottengano il risultato al più presto possibile) e, nel breve periodo, puntare su settori, prodotti e servizi nei quali il nostro vantaggio comparato non è eliminabile dai divari di costo del lavoro. Qualità e innovazione, storia, solidarietà, territorio ed energie rinnovabili (finanziaria permettendo) sono alcuni gli ambiti prioritari su cui puntare.
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