E’ urgente dare vita nelle nostre città ad un movimento di amicizia civile con un fine specifico: quello di riaffermare, rigenerandola, l’identità culturale di una comunità di persone che scelgono di coltivare le virtù civiche. L’amicizia civile, fondata sul rispetto – che non è la mera tolleranza –, la collaborazione e la condivisione tra persone con idee e appartenenze anche diverse, è prerequisito indispensabile per ritrovare fiducia e per realizzare il bene comune, che è altra cosa rispetto al bene totale.

Una città può essere osservata come un campo spazialmente addensato di pratiche sociali ed economiche, un ecosistema capace di ospitare e generare attività plurali e interdipendenti. Spazialità e ritmi dei processi di creazione del valore si combinano oggi con la vita cittadina e con la produzione di eventi, anche di natura culturale. E’ questo un tema troppo a lungo dimenticato nel nostro paese.

E’ però motivo di speranza constatare come la recente ripresa di interesse nel dibattito pubblico nei confronti dello spazio urbano valga a mostrare che il principio della a-territorialità – principio che cancella ogni idea della comunità locale e qualsiasi senso di responsabilità verso il territorio – è privo di solido fondamento. Ciò ha conseguenze di grande momento.

La prima chiama in causa il livello politico-amministrativo, ossia le modalità di gestione della cosa pubblica e il coinvolgimento attivo dei cittadini. Solamente dal rapporto simbiotico di government e governance – le due principali forme di esercizio dell’autorità – è possibile esaltare la coscienza dei luoghi – come la chiama Giacomo Becattini (2015) – cioè il genius loci. L’idea di amministrazione condivisa richiede che si stringano “patti”, o meglio “alleanze”, tra l’ente locale e le tante espressioni della società civile, non solo per gestire, quanto piuttosto per disegnare il sentiero di sviluppo. E’ un fatto che le attività produttive ad alta intensità di conoscenza sono, quasi sempre, attività cittadine. E infatti, le “industrie creative” tendono oggi a raggrupparsi attorno a quelle città che sanno offrire opportunità sociali e culturali adeguate. La seconda conseguenza cui alludevo dianzi riguarda l’urgenza di dare vita nelle nostre città ad un movimento di amicizia civile con un fine specifico: quello di riaffermare, rigenerandola, l’identità culturale di una comunità di persone che scelgono di coltivare le virtù civiche. L’amicizia civile, fondata sul rispetto – che non è la mera tolleranza –, la collaborazione e la condivisione tra persone con idee e appartenenze anche diverse, è prerequisito indispensabile per ritrovare fiducia e per realizzare il bene comune, che è altra cosa rispetto al bene totale.

Che dire per dare forza persuasiva all’argomento di cui sopra? Che è opportuno volgere un istante la memoria al periodo storico in cui prende avvio quel modello di civiltà cittadina per il quale il nostro paese è giustamente famoso nel mondo. Come si sa, due sono i principali modelli di ordine sociale che sono nati e affermati in Occidente: il modello della polis greca e quello della civitas romana. Quest’ultima, a differenza della prima, è un tipo di società includente di tipo universalistico e ciò nel senso che l’organizzazione sociale è tale che tutti devono poter essere accolti nella città, sotto l’unica condizione che se ne rispettino le leggi e i principi fondamentali del vivere comune. Non così nella polis greca, alla cui agorà (piazza) non erano ammesse le donne, né i servi, né gli incolti. Quello della polis greca fu dunque un modello di ordine sociale escludente.

E’ sul fondamento valoriale della civitas che, a far tempo dalla rinascita dell’XI secolo (il secolo del c.d. “risveglio europeo”), prende avvio in Italia il modello della civiltà cittadina, una delle più straordinarie innovazioni sociali nella storia dell’umanità. La ripresa della vita culturale, emblematicamente espressa dalla nascita dell’Università a Bologna nel 1088, per un verso, e il successo straordinario della Rivoluzione Commerciale, per l’altro verso, sono all’origine di un nuovo modello di ordine sociale centrato sulla “città”. Non però la metropoli capitale di imperi, come erano state Roma o Costantinopoli, luoghi del potere centralistico e crocevia di etnie diverse. Ma la città–comunità di uomini liberi che si autogovernano mediante istituzioni appositamente create che si attornia di mura per tutelarsi da chi non è parte della comunità e dunque non merita la pubblica fiducia. Lo stesso spazio urbano è disegnato in modo da rendere visibile e da favorire lo sviluppo degli assi portanti della nuova convivenza: la piazza centrale intesa come agorà, la cattedrale, il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni, il mercato come luogo delle contrattazioni e degli scambi, i palazzi dei ricchi borghesi, le chiese che ospitano le confraternite.

Era entro questi luoghi, tutt’altro che virtuali, che venivano coltivate quelle virtù che definiscono una società propriamente civile: la fiducia; la reciprocità; la fraternità; il rispetto delle idee altrui; la competizione di tipo cooperativo. Questo impianto della città è qualitativamente diverso sia da quello dei villaggi agricoli, spesso un mero agglomerato di case senza un’urbanistica che rinviasse a pratiche di autogoverno, sia da quello dei villaggi annessi ai castelli dei signori feudatari. La cifra della città-comunità non è tanto la più grande dimensione, quanto piuttosto la capacità di realizzare coesione sociale e di esprimere un’autonomia politica ed economica. Nel Trecento, nell’Italia centro-settentrionale, dove il modello di civiltà cittadina ha trovato facile diffusione, si contavano già 96 città con più di cinquemila abitanti – 53 delle quali con più di diecimila abitanti – con un’incidenza del 21,4% sul totale della popolazione ivi residente, a fronte di un’incidenza europea del 9,5%. Solamente i Paesi Bassi riuscirono ad imitare celermente il modello italiano, mentre l’Inghilterra ancora nel 1500 aveva un’incidenza della popolazione urbana pari a solo il 4,6%.

L’economia delle città italiane era costituita di manifattori e di mercanti, oltre che di navigatori nelle città costiere. Ai mercanti spettò il ruolo di aprire nuovi mercati, anche a grande distanza, verso i quali riversare i prodotti della manifattura e dai quali importare materie prime e quanto di interessante essi avevano da offrire.  I mercanti furono non solamente i più attivi produttori di innovazioni organizzative in campo aziendale ma anche i più attivi soggetti di apertura culturale.

Fu all’interno delle città che si affermò l’amore per il bello – la filocalia che crea e realizza la percezione di un’appartenenza, e quindi facilita le relazioni interpersonali. Se ne ha chiara manifestazione nella costruzione e nell’arredamento delle Chiese, nella edificazione di palazzi, dapprima pubblici e poi anche privati, inaugurando quel mecenatismo che non solo finanziò gli artisti, ma consentì la nascita del mercato dei beni durevoli di carattere artistico. Il mecenate – si badi – non è semplicemente il filantropo che, mentre fa donazioni attingendo alla propria ricchezza, non si cura dei modi del loro utilizzo. Il mecenate, invece, si relaziona con l’artista, instaurando rapporti di collaborazione di lungo periodo, non sempre privi di conflitti, ma certo non anonimi, allo scopo di perseguire obiettivi di interesse collettivo in funzione dei quali egli pone le proprie risorse e il know-how organizzativo.

La città rappresentava dunque l’ambiente ideale per tutto ciò e se ne comprende agevolmente la ragione. Di cosa aveva primariamente necessità il nuovo modello di ordine sociale che, in modo del tutto spontaneo, si andava imponendo? Soprattutto di fiducia e di credibilità reciproca, virtù queste che abbisognavano di norme sociali la cui propagazione l’ambiente cittadino tendeva appunto a favorire. Al tempo stesso, però, un tale ordine sociale finiva con il distinguere nettamente tra coloro che prendevano parte attiva alla costruzione del bene comune attraverso attività economiche esercitate con competenza e con profitto e coloro invece – come gli usurai, gli avari, i manifattori incompetenti, ma anche quei poveri che, pur potendo fare qualcosa, si lasciavano andare all’accidia – che accumulavano solo per sé, tendendo a sterilizzare la ricchezza in impieghi improduttivi. Per garantire che la fiducia non venisse mal riposta, le città si dotavano sia di tutte quelle istituzioni di controllo dell’attività economica facenti capo alla Camera dei Mercanti (in seguito, Camera di Commercio) sia di quelle iniziative di solidarietà civica messe in atto dalle confraternite. Chi sono le persone degne di rispetto e di fiducia? Quelle che non lavorano solo per sé e per la propria famiglia, ma che si adoperano per realizzare opere di carità e che mantengono la parola data: in tal modo facendosi conoscere ed apprezzare dalla comunità, esse accrescono il proprio capitale reputazionale.

Vengo ora al nostro tempo. Perché nell’attuale fase storica i territori e dunque le città sono tornati, dopo un lungo periodo di ibernazione, ad occupare un ruolo di primo piano ai fini del progresso spirituale, sociale ed economico dell’intero paese? La ragione principale è che la globalizzazione ha fatto “risorgere” l’importanza della dimensione locale.  Mentre nella stagione precedente era quello nazionale il livello di governo cui fare riferimento, oggi sono i territori i luoghi privilegiati in cui si sperimenta il nuovo e dai quali provengono i più significativi impulsi allo sviluppo.

La globalizzazione dunque non solo non ha fatto scomparire l’importanza del territorio ma lo ha rilanciato, e ciò nel senso che la gara competitiva oggi si gioca a livello dei territori. Mentre prima dell’avvento della globalizzazione la competizione riguardava le singole imprese o i singoli gruppi d’impresa, che potevano uscirne vincitori o perdenti, ciò che sta succedendo oggi è che il destino delle imprese è legato a quello del loro territorio. Se un territorio “fallisce”, falliscono anche le imprese che in quel territorio operano e viceversa: il successo di un territorio è legato a doppio filo al  successo delle imprese che in esso insistono. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che ha colto di sorpresa non pochi, costringendo ad un ripensamento radicale delle politiche nazionali: in Italia è solo in questi ultimissimi anni che si è raggiunta piena consapevolezza sul fatto che è il territorio che funge da attrattore per le attività economiche. Si pensi agli interventi programmati per il Mezzogiorno d’Italia, che si sono rivelati fallimentari proprio perché espressione della convinzione che lo sviluppo del Mezzogiorno dovesse essere pensato e governato dal centro secondo il modello del government. Simili logiche se potevano avere un qualche senso un tempo, certamente non ne hanno alcuno nell’epoca attuale. Non può più essere il livello nazionale a decidere le strategie di sviluppo, trasferendole poi alla periferia per la loro implementazione: piuttosto è il locale che deve essere in grado di riacquistare la propria capacità di innovazione rimasta così a lungo assopita, durante la stagione della società industriale.

Cosa discende dalla presa d’atto che quello dello sviluppo territoriale, rappresenta, nelle condizioni odierne, la via maestra allo sviluppo? La prima conseguenza concerne il modo di governare le città. Dobbiamo superare la concezione tradizionale di governo per muoverci verso quel modello teorizzato da Sabino Cassese e da Gregorio Arena (Cittadini attivi, Bari, Laterza, 2006) noto come modello dell’amministrazione condivisa. L’idea di base è che l’ente locale, non può più ritenersi l’unico soggetto titolato a governare il processo di sviluppo. Piuttosto, l’ente locale deve coinvolgere in tale processo i cittadini e le organizzazioni della società civile portatrici di cultura. Non è difficile darsi conto delle resistenze cui si va incontro quando si cerca di attuare questo passaggio. Esse sono legate principalmente al fatto che gli amministratori locali non sembrano intenzionati a cedere facilmente quote di sovranità conquistate per via elettorale. Il presente Manifesto è stato pensato per promuovere una sensibilizzazione su queste tematiche e attivare processi effettivi di partecipazione.

L’amministrazione condivisa richiede che siano realizzati dei “patti” tra l’ente locale e le espressioni della società civile non solo e non tanto per gestire, quanto piuttosto per progettare il processo di sviluppo. Tecnicamente questo esige che si faccia ricorso a strumenti nuovi di dialogo, come ad esempio i forum deliberativi, i piani strategici, le fondazioni di sviluppo – un esempio notevole di queste ultime è il Joint Venture Silicon Valley Network.

Una seconda conseguenza riguarda il nesso tra imprenditorialità e territorio. Rileggiamo un brano di Italo Calvino, tratto da Le città invisibili, che bene illustra il concetto di innovatività d’impresa. “Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi aggiunge: Perché mi parli delle pietre? E’ solo dell’arco che mi importa. Polo risponde: Senza pietre non c’è arco”. Innovare significa imporre agli elementi (le pietre) nuove forme e nuovi ordini. Per creare novità occorre pensiero pensante, un pensiero cioè che sappia indicare la direzione di marcia; non basta il pensiero calcolante, che pure è necessario. E occorre anche non avere paura del futuro, non temere che il ponte possa crollare. L’imprenditore vero è un soggetto che si nutre di speranza, che non crede affatto che il futuro sia destabilizzante solo perché non è in nostro possesso.

Un pensiero del celebre scrittore inglese di fine Ottocento Gilbert Chesterton descrive bene la distinzione tra imprenditore e manager quando chiarisce la differenza tra l’atto del costruire e quello del creare. Scrive Chesterton: “Tutta la differenza tra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita, ma una cosa creata si ama prima di farla esistere”. Il vero imprenditore è dunque un creatore in questo preciso senso e non già un mero costruttore.

Una terza ragione, infine, è il fatto che la città è il luogo privilegiato per la creazione del capitale sociale – di tipo sia bonding sia bridging – che è il vero motore di ogni processo di sviluppo sostenibile.  In un saggio purtroppo poco noto di A. de Tocqueville, Il pauperismo (1835), si legge: “L’uomo civilizzato è… infinitamente più esposto alle vicissitudini del fato che non l’uomo selvaggio. Ciò che al secondo capita di tanto in tanto… al primo può succedere in ogni momento e in circostanze del tutto ordinarie. Con la sfera dei suoi godimenti egli ha allargato anche quella dei suoi bisogni ed espone così un più vasto bersaglio ai colpi dell’avversa fortuna. … Presso i popoli di elevata civilizzazione, le cose la cui mancanza ha come effetto di generare la miseria sono molteplici; nello stato selvaggio è povero soltanto chi non trova da mangiare”.

Ed ecco la proposta, veramente sorprendente considerati i tempi: “Esistono due tipi di beneficenza: la prima induce ogni individuo ad alleviare, a misura delle sue possibilità, il male che si trova alla sua portata. Essa è antica come il mondo… La seconda, meno istintiva, più ragionata, contraddistinta da minore passione ma spesso più efficace, indica la società stessa ad occuparsi delle avversità dei suoi membri e a provvedere in modo sistematico all’attenuazione delle loro sofferenze”. Come si vede, è qui anticipato, in termini affatto moderni, l’argomento secondo cui un welfare all’altezza delle sue sfide postula l’intervento di tutta la società per “attenuare le sofferenze” dei cittadini e non solo di una sua parte come può essere la pubblica amministrazione.

Al termine del suo lungo soggiorno veneziano, il grande Göethe ebbe a scrivere nel 1790: “Questa è l’Italia, quella che ho lasciato. Cerchi la correttezza tedesca in ogni angolo intorno. La vita e il suo brulichio sono qui, ma nessun ordine e temperanza. Ognuno pensa per sé, diffida del prossimo, è vanitoso. E i capi degli stati provvedono ancora una volta solo per se stessi”.  Sicuramente esagerava il celebre poeta tedesco, ma non si potrà negare che, all’epoca, avesse colto nel segno.

 

*Questo testo è l’introduzione al libro, curato da Leonardo Becchetti, Le città del ben-vivere. Il manifesto programmatico dell’economia civile pere le amministrazioni locali (Ecra 2017)

 

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