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Etica e solidarietà originano dal riconoscimento dei legami che uniscono le persone in virtù della loro comune natura. E il principio dell’amore del prossimo (il più vicino) è l’occhiale per correggere la nostra miopia. Spesso, anche per chi ha buona volontà, è più facile “adottare a distanza” che scambiare due parole con il condomino. Più facile che incontrare lo straniero che cammina nelle nostre stesse strade ma vive in città satellite e diventa invisibile ai nostri occhi perché lontano dal nostro ceto sociale e condizione di vita.

Un modo concreto di riconoscere i legami è quello di renderli visibili nel quotidiano ordito delle nostre relazioni economiche e professionali. E’ quello che a distanza si è proposto di fare il mondo del consumo e del risparmio solidale, citato ampiamente nell’ultima enciclica,[1] rendendo visibile il legame tra il prodotto acquistato e tutti gli attori che hanno contribuito a portarlo sulla nostra tavola. Consentendo al consumatore di scegliere percorsi che tutelano la dignità e promuovono l’inclusione e lo sviluppo degli anelli più deboli della filiera.

In questi ultimi tempi però, anche se non possiamo produrre banane, cacao, tè e caffè sottocasa, l’equosolidale viene talvolta erroneamente contrapposto al chilometro zero, ovvero al valore di acquistare prodotti genuini più prossimi.

A Rosarno gli immigrati lavoratori stagionali che raccolgono le arance sono pagati dai produttori pochi centesimi al chilo perché a loro volta i produttori ricevono soltanto in media 27 centesimi al chilo. Il prezzo finale del prodotto per i consumatori, come sottolinea la Coldiretti, è di circa 1,55 euro al chilo con un ricarico del 447 percento. Insomma i produttori di base sono pagati quel poco che consente loro di mantenere a coltivazione i terreni e a loro volta compensano i raccoglitori stagionali con salari da fame.

La vicenda di Rosarno ha reso chiaro a tutti che può esistere un “commercio equosolidale quasi a chilometro zero”, che le vicende dell’anello più debole (lavoratori stagionali) della filiera dei pomodori, fagiolini, arance, mandarini e olive prodotte in Italia che finiscono sulla nostra tavola non sono affatto dissimili da quelle dei lavoratori delle piantagioni di banane o dei produttori agricoli di base in paesi lontani.

Il ministro Zaia a accennato alla possibilità per questi prodotti di un marchio “etico” che contraddistingue una filiera diversa e un prodotto che contiene il valore intangibile, ma reso visibile dal marchio, di una maggiore responsabilità sociale nei confronti di tutti gli attori della filiera. Se esistono le arance rosse di Sicilia possono esistere anche le arance responsabili di Rosarno (o dei luoghi in cui potranno essere prodotte sotto queste nuove condizioni). 

La tracciabilità sociale della filiera è una grande opportunità di ricostruzione di legami invisibili e spezzati nel rispetto della libertà di scelta dei cittadini consumatori. Dove i pionieri che realizzano quest’innovazione sociale di prodotto sono di stimolo all’aumento della responsabilità e degli altri produttori.[2] Ho partecipato di recente ad un vertice FAO che radunava tutti i protagonisti della filiera delle banane nel quale le grandi imprese transnazionali (Dole, Ciquita) e alcuni grandi distributori (Sainsbury, Tesco) riconoscevano ai certificatori e importatori equosolidali il merito di aver creato un nuovo modello di filiera di “successo” che ha indotto anche loro ad avviare in via sperimentale iniziative simili. E’ per questo che oggi una banana su quattro nel Regno Unito proviene dalla filiera equosolidale.

Ora che abbiamo toccato con mano, che l’autointeresse miope che ci spinge ad ignorare i legami quando acquistiamo i prodotti diventa un boomerang ? Che non potremo mai avere sicurezza garantita in presenza di disperati che vivono in condizioni incivili ? Siam nelle condizioni di farlo partendo da obiettivi realistici e non utopici come quelli di un prodotto che garantisce che agli stagionali qualcosa di più di 20 euro al mese e abitazioni decenti o altre iniziative in grado di promuovere la loro dignità.

Basta con gli esercizi di indignazione, rabbia, commozione fini a se stessi. Proponiamo strade possibili realizzabili nella realtà economica del nostro quotidiano, in grado di attivare le “energie rinnovabili” della solidarietà di quella grandissima parte dei cittadini che possono e sono disposti a votare con il proprio portafoglio per una filiera diversa. Non si tratta solo di solidarietà ma anche un modello economico sostenibile che porta i valori dentro la piazza del mercato e crea quelle virtù di cui l’economia e la società hanno bisogno per sopravvivere.

rn[1]E` necessario un effettivo cambiamento di mentalita` che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, ‘‘nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti’’ Caritas in Veritatern

 
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[2]“Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. E` dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si puo` attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia.” Caritas in Veritate

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