In Libia ci sono oggi 50.000 persone che vogliono venire in Europa, e nei loro Paesi di origine una moltitudine di giovani ancora più ampia pronta a partire. La chiusura dei porti certo non scoraggerà che ha attraversato il Sahara a bordo di camion improbabili o di chi è detenuto nelle carceri libiche.
Se la situazione dei paesi di origine rimarrà la stessa, l’esodo migratorio durerà ancora per molti anni e nessuno sarà in grado di fermarli, neppure a cannonate. La proposta di fare degli Hotspot (tradotto in italiano comprensibile: carceri) in mezzo al deserto è stata giustamente rifiutata dalla Libia e dagli altri paesi di transito.
I governi dei paesi di partenza non sono affidabili e gli aiuti si trasformerebbero subito in arricchimenti per i governanti stessi; alla gente non arriverebbero nemmeno le briciole, per cui nessun governo europeo vuole spendere soldi per i “Bokassa” di turno.
Come se ne esce da questo cul-de-sac? Se ne esce con la nostra storia medioevale: i fondachi.
Tutte le Repubbliche marinare, ma non solo, agli inizi del secondo millennio avevano dei magazzini presso i maggiori porti orientali. Costantinopoli, Alessandria, Tiro ecc, avevano concesso ai mercanti italiani uno spazio in città per il deposito delle merci che arrivavano dalla Cina o dall’India e che immagazzinavano presso questi magazzini (fondachi appunto) in attesa di imbarcarli per L’Europa.
I fondachi godevano dell’extraterritorialità ed era la Repubblica marinara che nominava il capo di quella comunità; al suo interno vi erano uomini armati che proteggevano le merci e i mercanti stessi. Il capo del Fondaco aveva il potere di contrattare con le autorità del luogo le tasse da pagare.
Dopo mille anni certo non possiamo riproporre lo stesso identico modello, ma possiamo assumere l’idea di fondo che sta alla base del fondaco. Non più magazzini ma fabbriche in cui far lavorare le persone del luogo in una area che però gode di extraterritorialità, sia pur temporanea, con mandato e responsabilità europee.
I vantaggi sono evidenti: dare una prospettiva di sviluppo a quelle popolazioni, attivare una economia che al momento è poco più che di sussistenza, proteggere gli impianti e le attrezzature da eventuali azioni terroristiche o belliche, sottrarre progressivamente quei popoli da influenze nefaste. In sostanza un piano Marshall europeo per il lavoro in Africa.
Ai margini del Fondaco si svilupperebbe un indotto che aiuterebbe a risollevare le sorti di molte persone, esattamente come succede dalle nostre parti. Va da sé che occorrono fabbriche ad alta intensità di mano d’opera e con un tasso tecnico medio-basso proprio per assorbire quante più maestranze possibili.
Il “come” arrivare a questo obbiettivo è in mano alla diplomazia, ma credo anche che in questo caso potremmo seguire il modello del Mozambico che vide il Vaticano, ed in particolare la Comunità di Sant’Egidio, artefice dell’accordo di pace e gli alpini italiani mandati a controllare il rispetto degli accordi. Adesso si tratta di intervenire su un’altra parte del continente e la Comunità di Sant’Egidio potrebbe essere nuovamente protagonista.
“L’auctoritas” mondiale di Papa Francesco da sola garantirebbe sia gli europei che i paesi africani: i primi che i soldi siano spesi bene, i secondi che non ci sarebbe un nuovo colonialismo mascherato da aiuti internazionali.
Francesco è un gesuita e conosce bene la storia di quel continente con le aziende-comunità che ospitavano e facevano lavorare gli indios amazzonici al riparo dai mercanti di schiavi Portoghesi e Spagnoli. I cattolici hanno inventato il lavoro con San Benedetto, l’welfare con Sant’Ignazio e la formazione professionale con Don Bosco, di che meravigliarsi se nel terzo millennio aiutiamo in forme nuove i diseredati del mondo?
Poi la diplomazia degli Stati, a volte, sa anche escogitare “scappatoie” originali per superare i molti ostacoli che si frappongono.
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