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E’ opportuno di tanto in tanto fare un bilancio degli effetti della crisi sul nostro paese e valutare le possibili vie d’uscita. Guardando alle nostre spalle è opportuno distinguere le (pur collegate) dinamiche del mondo bancario finanziario da quelle dell’economia reale.

Dal primo punto di vista va osservato che l’Italia, partendo da una situazione di debito pubblico molto più delicata di quella dei suoi partner occidentali, ha evitato per ora il dissesto bancario osservato nei paesi anglosassoni, dissesto che avrebbe avuto conseguenze gravissime sul nostro paese proprio perché la situazione delle finanze pubbliche già difficile consentiva pochi margini d’intervento in salvataggio delle banche. Da questo punto di vista dobbiamo dire grazie alla serietà dei nostri organi di vigilanza bancaria, agli spiriti solidali che hanno segnato l’origine di quasi tutte le banche italiane e che hanno fornito gli anticorpi culturali e il buon senso necessario per non trasformare i nostri istituti in dei casinò. Fondamentale anche il ruolo dell’ombrello dell’euro che ha evitato drammatiche svalutazioni e crisi finanziarie. Basti guardare all’esempio di economie di paesi non protetti dalla valuta comune, alla differenza di effetti della crisi tra Slovacchia (con l’euro) e altri paesi dell’Est Europa (senza l’euro).

Dobbiamo altresì ringraziare le famiglie e le imprese per non essere cadute nella tossicodipendenza da debito, ancorandosi saldamente alla virtù del risparmio. Questo ci ha consentito di arrivare alla crisi con delle riserve di ricchezza superiori a quelle di altri paesi. Per ricordare soltanto due dati, le famiglie italiane hanno un rapporto tra debito e reddito di tre volte inferiore (50 percento rispetto a 150 percento) a quello delle famiglie americane e una rapporto tra ricchezza netta e reddito anch’esso decisamente superiore. Queste “riserve di grasso” e un sistema di protezione sociale diffuso ci hanno permesso di non dover vivere questa prima fase recessiva con il terrore con il quale la stessa è stata percepita in altri paesi. Se fino a poco tempo fa eravamo considerati demodé e un po’ antichi perché dubitavamo delle magnifiche sorti progressive della nuova finanza e della leva bancaria, adesso ci siamo presi una piccola rivincita.

Date tutte queste premesse positive vediamo ora i nostri difetti. Il nostro sistema di protezione sociale è fortemente sbilanciato verso le pensioni e non copre in misura eguale tutte le tipologie di lavoratori favorendo alcune figure rispetto ad altre. La combinazione di queste due caratteristiche sta creando l’emergenza sociale di una vasta area di precariato giovanile che ormai si estende alla generazione dei trentenni e dei quarantenni.

Nonostante la forza del nostro risparmio e la sostanziale tenuta del sistema bancario, l’economia reale che si fonda in maniera importante sulle esportazioni è stata pesantemente colpita dalla recessione dell’economia occidentale. Le stesse banche più esposte ad Est non hanno definitivamente risolto il pericolo derivante da quei paesi e dalla larga parte di crediti in euro non esigibili contratti da clienti la cui valuta nazionale si è fortemente svalutata rispetto all’euro. Il lungo periodo di stagnazione vissuto in questi anni mette in pericolo le riserve di ricchezza accumulate e il nostro paese è in disperata “ricerca di autore”, ovvero di un nuovo percorso di sviluppo sostenibile in grado ci coniugare creazione di valore economico, sociale ed ambientale.

Cosa può fare la politica ? Armonizzare le tutele riducendo gli squilibri tra generazioni, rendere più vivace il mercato del lavoro, definire nuovi standard che incentivino programmi di bioedilizia e di innovazione nel settore delle fonti di energia rinnovabile in grado di coniugare valore economico e valore ambientale. Tra una rivoluzione verde che punta alla ristrutturazione di tutti i nostri edifici per migliorarne l’efficienza energetica e che potrebbe creare molti posti di lavoro, da una parte, e meri condoni edilizi per l’ampliamento delle cubature, dall’altra, passa una bella differenza e tutto il gap culturale che ci separa dai paesi più civili del Nord Europa.

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