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Il motivo è presto detto. Le istituzioni internazionali calcolano che, per rispettare l’impegno di dimezzare la povertà entro il 2015, sancito dagli Obiettivi del Millennio, sarebbero come minimo necessari 50 miliardi di dollari all’anno. Ma i donors più importanti sono costretti in questo momento ad impiegare le proprie risorse in tutt’altra direzione. Gli Stati Uniti hanno finora speso più di 7 trilioni di dollari in salvataggi estemporanei di intermediari finanziari in dissesto senza adottare una strategia ben precisa. L’UE ha messo in campo un sistema di garanzie che vale più di 2 trilioni di euro per fronteggiare il problema della crisi di fiducia sui mercati finanziarirn
In questo contesto l’appello a rispettare l’obiettivo (sancito dal precedente incontro ONU di Monterrey) di destinare lo 0.7 percento del proprio prodotto nazionale lordo in aiuti per i paesi in via di sviluppo rischia di cadere nel vuoto.
I documenti redatti in occasione di iniziative come questa sono sempre frutto di compromessi e di estenuanti limature. Raramente innovatori ed anticipatori non azzardano la scommessa sulle nuove pratiche dal basso e sui pionieri, accennando a qualcosa di nuovo solo in presenza di iniziative ormai già metabolizzate e di successo come il microcredito. Eppure essi non sono affatto inutili nei casi migliori in cui, al di là delle tradizionali esortazioni, si definiscono obiettivi concreti (come gli Obiettivi del Millennio) che diverranno poi riferimento per le politiche di sviluppo mondiali. Nulla di tutto questo è accaduto a Doha che ha espresso qualche piccola novità ma è stata nel complesso un’occasione mancata.
L’approccio è infatti quello tradizionale nel quale il problema dello sviluppo è essenzialmente una questione tra istituzioni e governi che non coinvolge, se non in minima parte, i “giacimenti di solidarietà” e la professionalità della società civile, delle ONG e delle imprese solidali. Le novità, all’interno del tradizionale gergo, in cui troviamo ripetute innumerevoli volte le parole chiave eguaglianza di genere, liberalizzazione commerciale, aiuti allo sviluppo, sono i timidi accenni alla responsabilità sociale d’impresa (3 volte), senza peraltro approfondirne potenzialità e limiti. Nessun riconoscimento in questo campo dell’importanza del “voto con il portafoglio” di cittadini ed istituzioni e della loro possibilità di stimolare le imprese ad una maggiore responsabilità, se non quando il documento sottolinea l’importanza dell’introduzione di clausole che premino il valore sociale ed ambientale tra i partecipanti alle gare di pubblico appalto.
Il potenziale del “voto con il portafoglio” è rappresentato da quel 60 percento circa di cittadini dei paesi più sviluppati che nelle indagini a mezzo intervista dichiarano di preferire l’acquisto di prodotti con maggiore valore sociale ed ambientale (come i prodotti equosolidali) rispetto a quelli tradizionali, e di essere disposti (nella misura del 30 percento circa) a farlo anche quando i primi costano fino al 10 percento in più. Un’azione del genere potrebbe avere effetti notevolissimi spingendo le imprese a divenire più responsabili per conquistare i nuovi consumatori se solo la scelta reale diventasse più simile alla “scelta virtuale”. Le decisioni di acquisto solidali infatti sono molto minori perché è difficile valutare il valore sociale ed ambientale dei prodotti e quelli migliori da questo punto di vista sono presenti in pochi punti vendita. E’ necessario pertanto aumentare capillarità e diffusione di questi prodotti e diffondere in maniera molto maggiore informazioni sul rating sociale delle imprese. E’ clamoroso tra l’altro come il rating sociale sia stato in grado di selezionare molto più efficacemente del rating finanziario i titoli a rischio per i risparmiatori (la fallita Lehman aveva la massima affidabilità per le società di rating finanziario mentre era da sempre esclusa dai portafogli che effettuavano screening etico per via della sua opacità).
Ma l’occasione veramente perduta è quella di entrare nel merito delle cause e delle soluzioni della crisi finanziaria mondiale rafforzando il consenso su quei rimedi in grado di evitare gli effetti drammatici di oggi sulle azioni di lotta alla povertà e di sviluppo. Il consesso di Doha entra in questo caso in un terreno meno battuto e presenta soltanto generiche affermazioni sull’importanza della trasparenza, della regolamentazione, del coordinamento tra istituzioni finanziarie e di un maggiore ruolo in esse dei paesi poveri e di quelli emergenti. Paradossali da questo punto di vista i complimenti nei confronti del lavoro del comitato di Basilea che con il suo strabismo (attenzione scrupolosa verso i prestiti a realtà sociali, considerati a massimo rischio, e nessun controllo per le attività in derivati degli intermediari non bancari) è uno dei responsabili di questa crisi. Un piccolo passo indietro rispetto alle critiche circostanziate degli addetti ai lavori, del G20 e del Financial Stability Forum di Mario Draghi.
Doha avrebbe dovuto su questo tema dire due cose molto semplici. Primo, aiutare i mutuatari americani a pagare le rate sarebbe costato molto meno che intervenire discrezionalmente salvando l’uno o l’altro intermediario perché avrebbe potuto togliere gran parte del veleno ai titoli “tossici” (i derivati del credito) riaumentandone il valore. Secondo, a medio termine le soluzioni vere che impediranno il ripetersi di una crisi di questo genere sono l’imposizione di regole prudenziali agli intermediari non bancari (hedge funds, società veicolo, ecc.), finora fuori dai controlli, e l’individuazione di un rapporto ragionevole tra debito e capitale proprio (fino a trenta a uno per le principali banche d’affari oggi in difficoltà) per ridurre il loro rischio di fallimento in caso di perdite.
Ancora molta strada può e deve essere fatta per attualizzare ed incarnare nell’economia globale i principi di sussidiarietà e bene comune, valorizzando le potenzialità di un’interazione virtuosa tra istituzioni, organizzazioni della società civile, cittadini responsabili e imprese solidali.
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