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Da quanto siamo entrati nella crisi finanziaria globale si parla sempre più spesso di etica e di ristabilire il primato della politica sull’economia. La frase desta però qualche sospetto in quanto, al concetto di politica, si associa spesso quello di casta, di spreco di risorse pubbliche.

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Ulteriore diffidenza si aggiunge se si pensa all’esperienza non sempre felice delle imprese e banche pubbliche nella nostra storia passata. Propongo la sostituzione di quei due termini affermando che ciò che va ristabilito è il primato della costituzione sul riduzionismo economicista.rn

Proviamo a fare un gioco rileggendo gli articoli due e tre della costituzione come sono, come vorremmo che fossero e in cosa rischiano di essere trasformati dal riduzionismo economicista.

L’articolo 1 afferma, come ben noto, che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. La deriva culturale degli ultimi anni ha cambiato quest’articolo in “l’Italia è una repubblica fondata sul consumo”, oppure “sulla massimizzazione del profitto”. Il problema è che gli studi sulla felicità ci suggeriscono che la prima versione, quella autentica, è proprio quella migliore. Il lavoro è una questione maledettamente importante per la nostra realizzazione di vita (vedi articolo 3), ben più di quella di aumentare il nostro benessere di consumatori. Studi ormai consolidati sul rapporto tra inflazione e disoccupazione dimostrano che, in termini di felicità, su campioni amplissimi della popolazione un aumento percentuale di un punto di disoccupazione pesa tre volte di più rispetto all’aumento di un punto di inflazione. Ciò deriva dalla considerazione quasi banale che realizzazione nel lavoro, qualità di vita e di relazioni sono elementi sostanziali della persona, mentre le dimensioni di consumatore ed azionista sono tutto sommato elementi accidentali quando non si scende al di sotto di una soglia troppo bassa di reddito. Nessuno nega che i consumi siano essenziali per far funzionare l’economia ma questo non vuol dire che il benessere del consumatore possa essere in cima alla scala dei valori. Molte cose vengono prima. L’articolo 3 della costituzione parla dell’impegno a rimuovere tutti gli ostacoli, sociali ed economici che si frappongono alla piena realizzazione della persona. Siamo molto vicini ai concetti di bene comune della dottrina sociale della chiesa e a quello di crescita delle capabilities di Amarthya Sen.

La deriva culturale degli ultimi anni dice qualcosa di diverso. L’impegno è orientato alla creazione di valore economico tout court affidando poi il problema della promozione delle pari opportunità al concetto di sgocciolamento (“trickle down”). Un po’ della ricchezza creata sgocciola a valle consentendo così anche agli strati più bassi di beneficiarne. In una versione ulteriormente adattata alla vulgata contemporanea, possiamo riscrivere l’articolo parafrasando che ci si impegna a rimuovere tutti gli ostacoli, di carattere sociale ed economico, al consumo, se necessario (e se i salari dei meno abbienti non sono in grado di sostenerlo) anche ricorrendo ed accrescendo l’indebitamento delle famiglie in tutte le sue possibili versioni.

Forse la cosa migliore sarebbe riscrivere i due articoli affermando che l’Italia è una repubblica che intende creare le condizioni per una felicità sostenibile dei propri cittadini, creando valore economico, sociale ed ambientale e promuovendo pari opportunità in modo da favorire una realizzazione piena di vita

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Lo stravolgimento di fatto dei due articoli della costituzione è figlio di un riduzionismo antropologico (uomo visto come homo economicus e non come persona) e nella concezione d’impresa (solo le imprese che massimizzano l’utile esistono e possono sopravvivere) che ha condotto oggi alle quattro gravi crisi che stiamo vivendo: economica, finanziaria, ambientale e delle relazioni umane.

Gli studi in tutte le scienze sociali di questi ultimi anni ci dicono cose molto diverse. L’uomo non sceglie soltanto avendo come finalità la convenienza del consumo o il rendimento del risparmio senza curarsi delle conseguenze sociali ed ambientali delle proprie azioni. Egli è piuttosto persona e per questo aperto alle dimensioni di dono e gratuità che integrano necessariamente le regole stabilite dai contratti e dai ruoli per aumentare il valore delle relazioni che vive nella realtà familiare ma anche in quella economica. Moltissime imprese nascono e prosperano grazie alla spinta degli “spiriti solidali” e non soltanto di quelli animali. Oggi chi vuole massimizzare l’utile a breve non si mette certo a far nascere un’impresa ma prova ad ottenere risultati immediati sui mercati finanziari.

Rifuggendo dal riduzionismo sarà necessario in futuro valorizzare sempre di più la “biodiversità economica” riconoscendo e promuovendo le diverse modalità di fare impresa e premiando l’eterogeneità nelle motivazioni di consumo e di risparmio. Più attenzione a cittadini e imprese responsabili consentirà al mercato di internalizzare le esternalità e di produrre quei valori (senso civico, fiducia interpersonale e negli attori economici) che il mercato si è dimostrato scarsamente in grado di produrre e di cui ha maledettamente bisogno per funzionare.

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