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In questa sezione riportiamo i pareri degli economisti della redazione sull’attuale crisi finanziaria.

Riflettori sul rapporto tra politica e attori del mercato di Andrea Ciampani

Di fronte al forte impatto socio-economico della crisi finanziaria in corso la reazione di rintracciare nel dibattito corrente i profili interpretativi dell’opposizione tra l’intervento statale e la finanza irresponsabile può essere facile, ma forviante nell’attuale contesto di una società aperta e complessa.

Il nodo irrisolto che ora giunge al pettine, piuttosto, sembra riguardare la dinamica tra la rappresentanza politica (il congresso statunitense, i governi europei,…) e gli attori del mercato (il composito mondo bancario e gli stakeholders che possono incidere sul suo orientamento). In questa dinamica, ovviamente, rientra anche la questione del rapporto stato-mercato; tuttavia, in questo contesto essa assume una differente prospettiva. Viene, infatti, alla luce la già nota estrema fragilità dei rappresentanti politici “locali” a governare in solitudine dinamiche globali; viene alla luce, ancora, il passato fallimento di un interventismo statalista, qualora questo non sia accompagnato da un processo di coinvolgimento degli attori del mercato.

C’è, insomma, una evidente esigenza di accompagnare alcuni interventi d’urgenza, necessari a consolidare la stabilità della “res publica”, con l’impostazione di un processo di regolazione volto ad accompagnare nel mercato nuove culture e attori socialmente responsabili, riprendendo processi di governance e  “coalitions for changes”, per usare espressioni usate qualche anno fa dalla Banca mondiale. Non bisogna dimenticare, in questo senso, quanto ricordato da Sapelli circa il mercato quale “frutto di un lungo e complesso processo sociale e culturale, da un lato, e dall’altro come relazione tra attori sociali che mentre promuovono i propri comportamenti quello stesso mercato sopradefiniscono”.

In questa direzione l’Europa potrebbe giovarsi di un “acquis communitaire”, maturato a fatica nella seconda metà del secolo scorso sulla scorta del “dialogo sociale”; esso appare, tuttavia, in questi giorni ancora ignorato dai sui stessi protagonisti.

Ci vuole una nuova Bretton Woods – Luigino Bruni

Sono convinto che l’attuale crisi sia l’occasione per una riflessione profonda di tipo economico, finanziario, politico e culturale, che è "ferma" a Bretton Woods. Keynes (ma anche Minsky, Wicksell e altri economisti tra le due guerre) ci avevano mostrato che con l’economia monetaria, e con il nuovo ruolo delle banche e della finanza, il capitalismo era profondamente mututo: la crisi e l’instabilità sarebbero diventate la regola, non l’eccezione.

Ci voleva un nuovo patto sociale (economico-politico) per gestire questa nuova realtà. IL FMI e la Banca Mondiale sono il risultato, molto parziale e in parte tradito, di quel nuovo patto. Il capitalismo monetario aveva bisogno di nuove regole, che in parte furono scritte, e che hanno retto fino all’avvento della globalizzazione.

La crisi attuale (che, attenzione, è solo l’epilogo (e non è ancora l’apice) di un processo di crisi iniziato già a fine anni ’80) sta dicendo drammaticamente che il "capalismo finanziario" richiede una nuova bretton woods, che ridisegni la nuova architettura del capitalismo di terza generazione, se vogliamo che queste crisi non facciamo implodere il sistema mondo, in una crisi di cui è quasi impossibile stimare gli effetti.

A fine anni novanta si sta arrivando ad una coscienza globale che il capitalismo richiedeva più governance. La tobin tax, e il dibattito attorno ad essa, ha catalizzato quel periodo, che nei fatti di Genova del 2001 ha raggiunto il suo massimo. L’11 settembre, poi, ha deviato per anni l’attenzione della società civile internazionale dalla nuova architettura del capitalismo finanziario, per i grandi temi della sicurezza e del terrorismo. E oggi ci accorgiamo che in questi setti anni di "distrazione" il processo è cresciuto, e prendiamo coscienza che c’era un’altra "guerra" e un’altra "sicurezza" non meno grave dei controlli agli aeroporti che incombono sulla "post-economia di mercato".

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La risposta di Flavio Felicern

Caro Luigino,sono in gran parte d’accordo con te. Ho qualche problema a capire quali dovrebbero essere i contenuti di una eventuale nuova Bretton Woods. In quell’occasione, il grande problema fu l’individuazione degli strumenti politico-finanziari che riaccendessero (o meglio, che accendessero) la fiducia tra gli stati, stabilizzando i cambi monetari. Oggi il problema è sempre di carattere fiduciario, ma riguarda le relazioni tra gli operatori bancari. Non si tratta, quindi di “ridisegnare una nuova architettura del capitalismo di terza generazione”. In primo luogo perché le architetture della prima e della seconda generazione del capitalismo non sono sorte per decreto o attraverso “sinodi”; le rivoluzioni industriali sono state il prodotto di un’incubazione economico-imprenditoriale-finanziaria, ma prima ancora filosofica e teologica, durata secoli, che parte dalla caduta dell’Impero romano e giunge fino alle rivoluzioni borghesi, passando per la tradizione mercantile medioevale, per l’umanesimo laico e cristiano e per il rinascimento. Bretton Woods finisce nel 1971, ma le sue rigidità rappresentarono sin dall’inizio un problema. Quindi, pensare ad un nuovo “sinodo” dei potenti mi lascia perplesso; certo si può fare e si farà (lo vogliono Tremonti e Berlusconi!), come già si fanno i vertici dei G4, G5, G6, G7, G8…..

In secondo luogo, mi chiedo e ti chiedo: una nuova Bretton Woods per decidere che cosa? Sappiamo che in un mondo in cui la conoscenza fosse perfetta non avremmo alcuna crisi, ma quel mondo non esiste e chiunque si prenda la briga di fare il “grande architetto” del mondo o è un folle o è il Padre Eterno. Scartando la seconda ipotesi, diffiderei della prima. La soluzione all’attuale crisi passa per la riconquista della fiducia, e noi sappiamo di poterci fidare l’uno dell’altro solo se ci conosciamo a vicenda. Io sono disposto a stringerti la mano solo se, conoscendoti, sono certo che il palmo aperto della tua mano tesa non si trasformerà in pugno chiuso sul mio naso. Bisogna, dunque, operare perché ci si riappropri delle ragioni della fiducia. Un mercato (nel senso röpkiano del termine), riconosce il ruolo dell’intervento pubblico, a condizione che sia “conforme” al mercato stesso e non lo soffochi. Un intervento è conforme al mercato quando trasmette informazioni che accrescono la conoscenza tra gli operatori e promuovono la fiducia: il lubrificante del sistema. Ne consegue che gli strumenti per superare l’attuale crisi, piuttosto che di ordine architettonico (sistematico), dovrebbero essere mirati ad aumentare il grado di conoscenza tra gli operatori, di trasparenza delle operazioni e di rispetto della parola data (qualcuno dovrebbe anche pagare ogni tanto). Queste sono le ragioni della fiducia ed è questo, unito all’esigenza di superare i propri limiti al fine di raggiungerei propri obiettivi, ciò che fa girare il motore del mercato.

Ultima annotazione, Luigino sai benissimo che l’espediente letterario della “mano invisibile” è stato elaborato da Smith non tanto e non solo per consolidare teoricamente il laissez faire, quanto per evidenziare anche e soprattutto un dato epistemologico da sempre conosciuto dagli studiosi delle scienze sociali: il problema delle conseguenze inintenzionali delle azioni intenzionali. Un problema che ha molto a che fare con le questioni che ho tentato di esporre finora. Una nuova Bretton Woods, alla luce della teoria della “mano invisibile”, deve tenere conto in primo luogo delle conseguenze non intenzionali dei piani posti in essere dal “grande architetto” di turno. Coloro che hanno criticato il piano Bush-Paulson (ed è documentato che non sono tra coloro) non credo l’abbiano fatto per ignoranza o perché beceri divulgatori di chissà quale cattiva cultura economica ovvero selvaggi spiriti animali accecati dall’odore del sangue delle loro prede, ma semplicemente perché hanno assunto ideologicamente (ed è questa semmai la loro colpa) una questione reale che i costruttivisti di ogni specie si ostinano a non voler considerare: le conoscenze a nostra disposizione sono insufficienti ed ogni tentativo di far quadrare il cerchio rischia di risolversi in  un rimedio peggiore del male.

Allora, assunto che il mercato è il sistema che può ragionevolmente garantire nel miglior modo possibile la dignità della persona, partiamo dal presupposto che esso non possa esistere senza la fiducia reciproca tra gli operatori, che la fiducia si costruisce intensificando la conoscenza, che la conoscenza richiede trasparenza e che solo le regole possono promuoverla.  Regole che, sulla scorta della lezione di Erhard, Röpke, Eucken (ma anche di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, n. 42), fondino il mercato, che lo pongano in essere, che lo rendano operativo ed efficiente e non che lo limitino o, peggio, che lo spiazzino alla ricerca senza fine di una sua inesistente alternativa.

Le metafore dell’economiadi Luigino Bruni

Caro Flavio, grazie: è sempre un piacere dialogare con te, perché costringi a pensare fino in fondo i nodi teorici. Forse la mia idea di una nuova Bretton Woods non è così strana, se guardiamo come sta evolvendo, anche oggi, la crisi: non so il contenuto, ma che occorra non ho molti dubbi.

Una battuta sulla "mano invisibile" di Smith. E’ certamente la metafora più nota nella storia del pensiero economico, più del "sollevarsi tirandosi su con le stinghe delle scarpe" di Keynes, che in questi giorni dovrebbe essere ricordata (a proposito della crisi del 29, da cui non si usciva, per keynes, senza l’intervento di un elemento esterno). Le metafore, però, sono importanti, più delle teorie, perché fanno cultura. Qual è il messaggio di quella metafora (sia nella Ricchezza delle Nazioni che nella Teoria dei Sentimenti Morali)? L’agente economico contribuisce al bene pubblico non preoccupandosi di agire intenzionalmente in vista del bene comune stesso, ma semplicemente preoccupandosi di agire per ricercare il proprio self-interest. In altre parole, l’agente economico non deve preoccuparsi degli effetti che un’azione produce sugli altri, né tantomeno entrare in rapporto personale con i propri concittadini per discutere e capire che cosa sia hic et nunc "bene comune". E’ sufficiente, e necessario, che ciascuno ignori gli altri, nella "mutua indifferenza" (come dirà due secoli dopo Rawls), e persegua all’interno delle leggi, il proprio interesse. La mano invisibile trasforma gli interessi privati in bene pubblico, non è lo scopo dell’azione individuale.

rnBene, tornando ad oggi, forse se qualche brocker e qualche banchiere nel cercare il proprio tornaconto (e quanto!!) si fosse domandato quali fossero gli effetti di quelle sue azioni sui risparmiatori e sul bene comune, forse questa crisi poteva essere evitata o essere diversa. La mano invisibile, che agisce sulla base degli interessi e delle informazioni private, dentro i paletti della legge, funziona in un contesto semplice. Nella post-modernità forse un ritorno all’etica delle virtù (un’azione si fa se è buona in sè) non farebbe male alla nostra economia e società. Alla prossima, Luigino

La risposta di Flavio Felice

Caro Luigino,sono anni che discutiamo di queste tematiche e credo che, disputando…disputando, qualche passo in avanti lo stiamo compiendo entrambi. Non ho nulla contro i summit, l’importante è che si abbia un’idea chiara sull’oggetto e sul metodo di lavoro. Temo che in questa fase l’oggetto sia troppo vasto: “l’architettura della terza generazione del capitalismo”, e l’individuazione del metodo non sia poi del tutto agevole. Bisognerebbe condividere il giudizio sulle prime due generazione del capitalismo e, ad oggi, non mi sembra che ci sia questo accordo, ma soprattutto dovremmo essere d’accordo sull’ipotesi – tutt’altro che pacifica –  che l’attuale crisi apra ad un capitalismo di terza generazione. Io personalmente non ne sono così convinto. È certo che inizia una nuova epoca (l’ho scritto ripetutamente), ma prima di parlare di una terza generazione vorrei capire meglio se stiamo realmente uscendo dalla seconda, ovvero se stiamo più realisticamente correggendone le storture, per consentire alle istituzioni classiche del capitalismo moderno di funzionare meglio. In fondo, le crisi sono sempre servite anche a questo. È probabile che abbia ragione tu e che la gravità dell’attuale crisi necessiti di una rivoluzione paradigmatica e non soltanto di profonde riforme. Al momento però io non saprei dirlo, e credo che nessuno abbia gli strumenti analitici e la sufficiente prospettiva storica per prevedere quale sia, da un punto di vista sistemico, l’esito dell’attuale crisi. Nel 1943 a Bretton Woods era fisicamente crollato un mondo, era definitivamente fallita un’idea di nazione, l’oggetto del “sinodo” era chiaro a tutti ed anche l’individuazione del metodo dei lavori appariva ragionevolmente (e necessariamente) condiviso. Fermo restando che a priori non nutro alcuna contrarietà nei confronti di assisi di tal genere, riscontro maggiori difficoltà oggi rispetto al ’43. E’ una debole opinione quella che ho appena esposto, che potrebbe mutare una volta chiariti i contorni della crisi e le intenzioni di coloro che dovrebbero sedere a tale “sinodo” (immagina solo le difficoltà a stabilire chi dovrebbe partecipare!).

Altra questione è quella che tu sollevi sulla “mano invisibile”. Non mi è passato neppure per la mente di negare la tua interpretazione, anzi ho esplicitamente usato le espressioni “non tanto e non solo”, per rendere ragione della tua interpretazione, ed “anche e soprattutto” per rendere ragione della mia interpretazione. Ho voluto solo manifestare la mia ipotesi che siano vere entrambe e che spesso è tanto propagandata la prima quanto sottaciuta la seconda. Al contrario, io ritengo che l’una non possa stare senza l’altra. È evidente che a questo punto ne risente anche il principio di “bene comune” di cui tu parli. Tu usi l’espressione azioni “buone in sé”, io mi preoccupo anche delle conseguenze non intenzionali di azioni poste in essere da persone mosse delle migliori intenzioni. La saggezza popolare a questo punto offre una miriade di proverbi, di aforismi e di aneddoti che tutti conosciamo. Dal punto di vista teorico, se la favola del Mandelville non ci dice tutta la verità sull’uomo, certo non ci racconta neppure una totale bugia, se “l’insocievole socievolezza” di Kant (la concordia discors di Lucano?) non risponde nel modo più adeguato alla prospettiva antropologica cristiana, non possiamo negare che incontri la tradizione dell’antiperfettismo rosminiano, manzoniano, sturziano; e che dire dell’affermazione di Giovanni Paolo II in Centesimus Annus, 25: “L’uomo tende verso il bene e pur sempre capace di male”? Quindi il concetto di bene comune deve tener conto di questa dimensione che è presente anche nella massima smithiana. Come vedi le due interpretazioni non possono fare a meno l’una dell’altra. Ciò che lamento è un certo strabismo che enfatizza sempre il sentimento morale e sistematicamente ignora la dimensione epistemologica. Con riferimento al concetto di bene comune, ad esempio, credo si renda necessaria la distinzione fra il suo oggetto formale ed il suo contenuto materiale; formalmente, infatti, il bene comune è intimamente legato sia alla società nel suo complesso sia alla singola persona in risposta alla sua eminente dignità. Tale aspetto, che rappresenta l’oggetto formale, non muta al variare delle circostanze storiche, mentre il contenuto materiale cambia radicalmente rispetto alle epoche storiche ed alle aree geografiche di riferimento. Oggi, ad esempio, il concetto di bene comune richiama l’attenzione dei governanti su aspetti del tutto ignorati nelle precedenti epoche: assistenza medica, autostrade, controllo dei tassi d’inflazione, istruzione pubblica, diritto al lavoro, bilancio dello stato in pareggio. Se considerassimo l’ordine sociale ed il bene comune come il frutto di un’autorità centrale e pianificatrice (è forse il “sinodo” dei grandi di cui tu parli?), difficilmente potremmo immaginare che la vastità e la complessità di tali esigenze possano trovare nel mondo limitato degli uomini una reale concretizzazione: ecco perché ho tentato di evidenziare un altro aspetto della nota massima smithiana, non perché negassi la tua, ma per sottolineare quanto sia problematico il tema e quanto sia difficile trovare una soluzione a partire dall’ingegneria sociale. Di qui, dunque, il mio richiamo non all’anarchismo, bensì all’esercizio della saggezza pratica e della ragione prudenziale, all’interno di una più corretta comprensione della natura dell’ordine sociale (le analisi degli ordoliberali e di Sturzo, insieme alle encicliche sociali, nacquero esattamente con questo scopo), al centro del quale c’è il fondamentale ruolo svolto dalle libere persone e dall’associazionismo nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale.

Poi condivido pienamente le tue conclusioni, il broker che avesse agito in vista delle conseguenze non solo su di sé, ma anche su altri sé, avrebbe contribuito a costruire un sistema finanziario più virtuoso. Come vedi, dipende dalla prospettiva morale del broker e dei tanti brokers, del banchiere e dei tanti banchieri, del governante e dei tanti governanti. Le regole sono espressione di una determinata prospettiva antropologica, la quale non è mai neutra, è sempre figlia di una visione etica. Ecco perché non mi convince ancora una nuova Bretton Woods; se la sfida è morale, con quali arnesi andiamo a sostituire un sistema che di per sé non nega la virtù? Semmai non la favorisce, non la premia e, fortunatamente, non la impone. Allora, dovremmo adoperarci per correggere il sistema e rendere il più innocue possibili le azioni viziose, attraverso un sistema di pesi e contrappesi (le regole ed i controlli). Ma esisterà mai un sistema politico-economico (fatto di/da uomini per uomini) in forza del quale l’uomo agisca sempre in modo virtuoso per sé e per gli altri ed in virtù del quale tale azione virtuosa rappresenti un bene per tutti e per ciascuno? Ovvero non sarebbe anche questa una versione nobile dell’onnipresente tentazione del serpente?

Grazie della disponibilità a dialogare.Flavio

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Mercato e valori civici – la risposta di Leonardo Becchetti

Carissimi Luigino e Flavio, mi permetto di interpormi con alcune considerazioni che entrano nella vostra discussione e sono legate al caso in particolare.
Nei mercati finanziari esiste un problema che il paradigma dell’homo oeconomicus ha sempre trascurato ma che le nuove frontiere della ricerca scientifica e il percorso dell?integrazione tra le diverse discipline sociali (in questo caso economia e psicologia) ci consentono di affrontare con sufficiente lucidità.
Una violazione importante del principio di razionalità su cui l’homo oeconomicus si basa e su cui costruiamo tutti i nostri modelli è quella della mancanza di autocontrollo. La persona affetta da
tossicodipendenza, l’alcolista vede purtroppo fallire i suoi piani razionali di raggiungimento di un obiettivo dati i mezzi a disposizione.
I mercati finanziari nei momenti di grande crisi vivono proprio il problema della mancanza di autocontrollo. La soluzione ottimale per risolvere questi problemi è un temporaneo eccesso di interventismo da parte dello Stato o dei regolatori.
Per momenti di panico temporaneo ci sono le  sospensioni dei titoli. Dopo l’11 Settembre a causa del panico generalizzato la borsa americana ha chiuso per tre giorni.
L’eccesso temporaneo di interventismo è inoltre necessario in questo momento per  un secondo motivo: risolvere la crisi di capitalizzazione delle banche (ricapitalizzate dallo stato negli Usa con azioni senza diritto di voto, si noti la delicatezza) e per ristabilire la fiducia tra le banche che non si prestano più denaro tra di loro (fino a garantire gli stessi debiti a breve delle banche sull’interbancario).
Se questo eccesso d’inteventismo non fosse temporaneo, sarebbe pericoloso. Nessuno vuole tornare alle banche pubbliche per via delle opacità e dei conflitti d’interesse con la politica che esse
comportavano.
L’altro campo d’intervento è quello della riforma delle regole. Qui dobbiamo sgombrare il campo da alcuni equivoci. Non è un problema di più o meno regole ma un problema di cambiare delle regole profondamente inique. Ovvero quei requisiti di patrimonializzazione che si accaniscono contro le banche quando prestano alle parrocchie, ai circoli ricreativi o alle imprese sociali considerate attività a massimo rischio e non fissano alcun criterio di accantonamento patrimoniale invece per gli attivi investiti in derivati, infinitamente più rischiosi come dimostrato ex post.  Queste regole sbagliate le pagheremo carissime. Nei prossimi anni ci saranno meno risorse per gli aiuti allo sviluppo. Con la metà dei soldi spesi dagli Stati Uniti per il fondo sarebbe stato possibile costruire un sistema di pannelli fotovoltaici per produrre tutta l’energia necessaria per gli Stati Uniti.
Detto questo, nella mia visione lo Stato, finita la crisi, dovrebbe ridisegnare le regole essenziali senza creare camicie di forza, ritirarsi discretamente dalle banche (lo farà sicuramente appena la crisi sarà passata) e promuovere l’azione di quegli enzimi sani rappresentati dall’economia solidale che alimentano le virtù morali e civiche di cui ha tanto bisogno il mercato.
La crisi di questi giorni conferma quello che la teoria delle asimmetrie informative dice da sempre. In contesti complessi dove l’informazione è scarsa e non disponibile per tutti (solo una settantina di giovani leoni in Italia sa veramente come funzionano i derivati e come si prezzano..), la pressione dell’utile a breve spinge i giovani leoni a rischiare in eccesso o ad assumere comportamenti opportunistici (per non dire di peggio) pur di portare a casa il risultato. Negli anni passati gli utili si vedevano ma il rischio era invisible e postposto. In questi contesti il mercato fallisce e la mano invisibile ha bisogno di quella visibile per funzionare bene.
Come società civile abbiamo fatto il nostro per dare più forza e nuove possibilità al mercato che oggi è anche piazza nella quale si può votare per l’inclusione degli ultimi e per le pari opportunità con il consumo e risparmio responsabile. Abbiamo costruito qualcosa che sta crescendo senza alcun aiuto pubblico (nel Regno Unito Tesco e Sainsbury hanno scelto di vendere al 100 percento banane equosolidali portando la quota di mercato oltre il 30 percento). Il mercato può così diventare non solo luogo dell’efficienza ma anche quello nel quale si può promuovere l’equità. E anche luogo che produce valori civici.

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