Nel caso italiano, in Assemblea costituente, le sedi nelle quali si redasse la Costituzione economica furono la I sottocommissione e la III sottocommissione.
rnAll’interno della Democrazia Cristiana si confrontarono due anime, quella dossettiana che vedeva nella Costituzione sostanzialmente uno strumento per la pianificazione – secondo la prospettiva del costruttivismo sociale, illiberale e tendenzialmente totalitario; e quella di Alcide De Gasperi di Luigi Einaudi e di Luigi Sturzo, diremmo liberale-moderata, per la quale nessun principio guida per la politica è migliore di quello liberale: secondo il noto aforisma di Lord Acton: “Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto”.
rnAll’interno della Democrazia Cristiana si confrontarono due anime, quella dossettiana che vedeva nella Costituzione sostanzialmente uno strumento per la pianificazione – secondo la prospettiva del costruttivismo sociale, illiberale e tendenzialmente totalitario; e quella di Alcide De Gasperi di Luigi Einaudi e di Luigi Sturzo, diremmo liberale-moderata, per la quale nessun principio guida per la politica è migliore di quello liberale: secondo il noto aforisma di Lord Acton: “Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto”.
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In tema di Costituzione economica prevarrà la linea dossettiana, una profonda sfiducia nei confronti del mercato traspare dagli articoli 41, 42 e 43 della Costituzione italiana e, sebbene l’articolo 41, al primo comma, reciti testualmente che “L’iniziativa economica privata è libera”, non sarà per ragioni economiche, ma per ragioni politiche, in chiave anticomunista. Il senso ultimo di questi articoli sarà l’affermazione della politica di pianificazione, sebbene moderatamente decentralizzata e di tipo neocorporativistico. In III sottocommissione sarà Amintore Fanfani a proporre due articoli che andranno esattamente nella direzione pianificatrice voluta da Dossetti, pur immettendo alcuni elementi che avrebbero potuto preservare la Costituzione economica da possibili derive totalitarie. Possiamo riconoscere che, sebbene non si trattasse della cornice normativa di matrice “ordoliberale”, Fanfani imbastì intorno alla problematica economica una rete protettiva sufficientemente larga e pluralistica che, se pur non avrebbe potuto garantire l’efficienza economica e non contemplasse il principio di concorrenza, avrebbe comunque fornito la forza costituzionale sufficiente per preservare in Italia la democrazia.
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Diversamente da noi, in linea con la prospettiva sturziana, einudiana e degasteriana, W. Röpke e i sostenitori della Soziale Marktwirtschaft tedesca impararono presto l’amara lezione impartita dalla veloce salita al potere di Hitler, e fecero propri un principio fondamentale dell’allora – ma di sempre – dottrina sociale della Chiesa, e più precisamente la nozione di giustizia sociale: prevenire il formarsi di monopoli, pubblici o privati che fossero.
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“Che cos’è il liberalismo?”, si domandava Röpke, non rispondendo certo come avrebbero risposto Dossetti o Fanfani: “Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità, che la sua destinazione tende al di sopra della sua esistenza materiale e che siamo debitori di rispetto ad ogni singolo, in quanto uomo nella sua unicità, che ci vieta di abbassarlo a semplice mezzo. Esso è perciò individualistico oppure, se si preferisce, personalistico”. Dalla definizione di Röpke emerge una nozione di liberalismo che lo sgancia da un’idea dogmatica e rigida dello stesso, evidenziando i connotati di un pensiero umanistico, in quanto non condivide né l’idea pessimistica hobbesiana di un uomo per natura egoista, né quella ottimistica di Rousseau. Il liberalismo di Röpke fa proprio il principio caro alla tradizione dell’antiperfettismo e del realismo cristiano, di Agostino, di Pascal, di Rosmini, di Sturzo, fino ad arrivare a Giovanni Palo II, per il quale l’uomo, benché tenda verso il bene è pur sempre capace di male. Esso è personalistico, poiché “in conformità alla dottrina cristiana, per cui ogni anima umana è immediatamente dinanzi a Dio e rientra in lui come un tutto, la realtà ultima è la singola persona umana non già la società, per quanto l’uomo possa trovare il proprio adempimento soltanto nella comunità”. Esso, inoltre, è antiautoritario, rendendo a Cesare quello che è di Cesare, ma riservando a Dio ciò che qualifica il suo rapporto con l’Assoluto: per il cristianesimo è la coscienza individuale che giudica il potere e non viceversa; esso, dunque, rifugge da ogni forma di nazionalismo, razzismo e imperialismo; in breve, è universale. Allora, il liberale per Röpke è “l’avvocato della divisione dei poteri, del federalismo, della libertà comunale, delle sfere indipendenti dello Stato, dei ‘corps intermédiaires’ (Montesquieu), della libertà spirituale, della proprietà come forma normale dell’esistenza economica dell’uomo, della decentralizzazione economica e sociale, del piccolo e del medio, della gara economica e spirituale, dei piccoli stati, della famiglia, dell’universalità della Chiesa e dell’articolazione”.
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Oggi è sempre più diffusa l’opinione presso i giuristi dell’economia che la concezione “ordoliberale” abbia influenzato significativamente le filosofie di fondo dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea. Sarebbe giunto il momento di mostrare agli europei – a partire dagli italiani per giungere agli irlandesi – che in quella concezione non v’era il “mercatismo” – così inviso ai neo-tremontiani, ma una lucida comprensione delle ragioni cristiane dell’economia di mercato. Röpke in uno dei suoi scritti più celebri afferma: “il liberalismo non è […] nella sua essenza abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni del pensiero occidentale, l’idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso dell’universalità”. Il fatto che esistano correnti di pensiero che mettono in discussione tale eredità spirituale, sostenendo, sul versante religioso, l’incompatibilità del cristianesimo con il liberalismo e, sul versante laico, l’incompatibilità delle istituzioni liberali con la fede cristiana, sarebbe il frutto, rispettivamente, di un “moralismo ignorante” e di un “economismo ottuso”.
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