Negli ultimi anni un intenso dibattito che ha coinvolto tutte le scienze sociali – etichettato come dibattito sulla felicità – è stato alimentato dalla abbondanza di dati riguardanti gli indicatori del benessere individuale. Tali dati, sia soggettivi (riguardanti cioè il benessere percepito dagli individui) che oggettivi (riguardanti cioè la diffusione di suicidi, alcolismo, droghe, disagi mentali, consumo di psicofarmaci, ecc) portano alla deludente conclusione che nel 2° dopoguerra in Occidente la soddisfazione che gli individui provano per la propria vita non ha registrato miglioramenti significativi. Questa evidenza è stata etichettata come “paradosso della felicità”.
Il caso americano è un caso emblematico di tale paradosso. Infatti, nonostante un aumento prolungato e rilevante del reddito pro-capite, la felicità dell’americano medio è in diminuzione negli ultimi 30 anni. Perchè l’economia più dinamica e più ricca del pianeta è popolata da individui crescentemente insoddisfatti?
L’aspetto paradossale di questa evidenza è ulteriormente complicato dal fatto che gli orari di lavoro negli Stati Uniti si sono allungati nell’ultimo trentennio. Perchè gli americani lavorano sempre di più se più denaro non implica più felicità?
Due studi suggeriscono che ambedue le tendenze – al declino della felicità e all’aumento degli orari di lavoro – siano spiegate in buona parte dall’aumento della povertà relazionale. Con questo termine mi riferisco al deterioramento delle relazioni intime e sociali. I vari indicatori segnalano un aumento della solitudine, delle difficoltà comunicative, della paura, del senso di isolamento, della diffidenza, della instabilità delle famiglie, delle fratture generazionali, una diminuzione della solidarietà e della onestà, un peggioramento del clima sociale.
In sintesi questi studi documentano che in larga parte gli americani sono divenuti più infelici e lavorano sempre più perchè sono diminuiti i loro ‘beni relazionali’. Questo concetto, recentemente affermatosi nella teoria economica, indica il contributo fornito al benessere degli individui dalla quantità e qualità delle relazioni che essi vivono. Ambedue gli studi usano dati relativi al trentennio 1975-2004, tratti dalla General Social Survey, la più importante banca dati USA sui fenomeni socio-economici, contenente una vasta quantità di informazioni sulla quantità e qualità delle relazioni tra gli individui, oltre che sui loro redditi e sulla loro felicità.
Il primo studio, dovuto a Ennio Bilancini, Maurizio Pugno e dal sottoscritto, è sul declino della felicità (http://www.econ-pol.unisi.it/dipartimento/it/node/756). Lo studio mostra che tale declino è spiegato quasi interamente da quattro forze che agiscono in direzioni contrastanti. La prima è l’aumento del reddito pro-capite che ha una influenza positiva sulla felicità.
Le altre tre influenzano la felicità nella direzione opposta. Innanzitutto l’aumento della povertà relazionale ha un impatto negativo sulla felicità. La seconda influenza negativa sulla felicità deriva invece dalla diminuzione della fiducia nelle istituzioni. Infatti la fiducia dei cittadini nelle principali istituzioni americane, governo, parlamento, banche, grandi imprese, sindacati, stampa, televisione, Chiesa, scuola, scienza, medicina, è diminuita. La unica eccezione riguarda la fiducia nelle forze armate, che è cresciuta. Gli americani diffidano sempre più delle loro istituzioni e questo sembra produrre un senso di insicurezza che deprime la loro felicità.
La terza forza che tende a diminuire la felicità dell’americano medio –chiamiamolo Mr. Jones – è il reddito degli altri americani. Il motivo sono i paragoni sociali. Infatti Mr. Jones confronta ciò che possiede e il suo stile di vita con quello di un selezionato gruppo di persone che rispetta e ai quali vuole somigliare. Queste persone, dette gruppi di riferimento, determinano lo standard dei consumi a cui Mr. Jones aspira e persino ciò che considera come un bisogno. In questo senso il benessere che Mr. Jones riceve dai beni che consuma dipende dai paragoni sociali che egli stesso compie. Avere molto può sembrare poco se quelli a cui Mr. Jones si paragona hanno di più. In una situazione in cui i paragoni sociali sono importanti – e negli Stati Uniti sembrano esserlo in modo particolare – la crescita economica tende a non aumentare il benessere perchè essa consiste in un aumento generale dei redditi. Dunque, mentre il reddito di Mr. Jones sta aumentando, aumenta anche quello di coloro ai quali Mr. Jones si paragona. Per questo la crescita tende a non cambiare la posizione dei vari milioni di Mr. Jones nei paragoni sociali e dunque a non avere effetti apprezzabili sulla loro felicità.
Il saldo tra queste quattro forze è negativo. In altre parole la variazione realmente osservata della felicità americana nel trentennio considerato è spiegata quasi interamente dal fatto che i tre impatti negativi sulla felicità hanno più che compensato l’impatto positivo dell’aumento del reddito. In altre parole, mentre il reddito dell’americano medio aumentava, aumentava anche quello delle persone con cui si paragona, peggioravano le sue relazioni e diminuiva la sua fiducia nell’ambiente istituzionale. Queste ultime tre influenze hanno avuto un impatto negativo complessivo sulla felicità che ha superato quello positivo dovuto all’aumento del reddito. Questi risultati spiegano quasi tutta la variazione della felicità americana, nel senso che il residuo inesplicato è abbastanza piccolo da lasciare un ruolo marginale ad altre spiegazioni del declino della felicità.
L’impatto dei beni relazionali sulla felicità è molto ampio. Lo studio dimostra che se la qualità relazionale fosse rimasta al suo livello del 1975 la felicità degli americani sarebbe cresciuta. Dunque gran parte della spiegazione della crescente infelicità degli statunitensi è che questi ultimi sono divenuti più ricchi di beni di consumo e più poveri di relazioni.
L’economia americana avrebbe dovuto crescere a ritmi molto più elevati di quelli –pur sostenuti- effettivamente osservati affinché l’aumento della povertà relazionale non diminuisse la felicità. Il tasso di crescita del reddito familiare necessario a compensare la perdita di felicità dovuta al declino delle relazioni, avrebbe dovuto essere più del doppio di quello effettivamente osservato. Si noti bene che si tratta della crescita necessaria a lasciare la felicità invariata al livello del 1975, non a farla crescere. Nemmeno 30 anni di crescita economica a tassi cinesi avrebbero fatto crescere la felicità americana, in presenza di un peggioramento delle relazioni come quello che si è verificato.
Il secondo studio, dovuto a Ennio Bilancini e dal sottoscritto, mostra che la povertà relazionale è causa di un aumento delle ore lavorate dagli individui (http://www.econ-pol.unisi.it/dipartimento/it/node/754). In altre parole gli individui più poveri sul piano relazionale sono anche maggiormente assorbiti dal lavoro ed interessati al denaro. Questo risultato suggerisce che l’aumento nel tempo degli orari di lavoro in America negli ultimi 30 anni, è stato influenzato dal peggioramento delle relazioni. Gli americani cercano nel lavoro e nella maggior ricchezza materiale una compensazione al peggioramento delle loro condizioni relazionali. A sua volta l’aumento degli orari di lavoro influenza negativamente la qualità relazionale. Individui il cui tempo e le cui energie sono sempre più assorbite dal lavoro dedicano meno tempo ed energie alle loro relazioni.
In conclusione la risposta alla domanda “perchè gli americani lavorano sempre più se il denaro aumenta la loro felicità?” poggia in buona parte sul peggioramento delle relazioni. Infatti il motivo per cui gli americani sono divenuti più poveri di tempo e più infelici è, in larga parte, nell’impoverimento relazionale.
Questi dati mandano un messaggio di allarme a coloro che pensano che gli USA siano l’es. da imitare: gli Stati Uniti sono un es. di crescente povertà di tempo, povertà relazionale ed infelicità. Anche il declino della fiducia nelle istituzioni, da cui si salva solo l’esercito, manda un segnale inquietante agli esegeti dell’American way of life. Infatti la tendenza a considerare le forze armate come l’unico baluardo di affidabilità istituzionale è tipica di molte nazioni povere, instabili, con enormi problemi di selezione della classe dirigente, e con tendenze autoritarie.
Quali implicazioni trarre da questi studi per una riformulazione delle agende politiche? La crescita economica è desiderabile in linea di principio ma non se è associata ad un ampio peggioramento delle condizioni relazionali. Dovremmo adottare una grande cautela nell’intraprendere politiche finalizzate ad una crescita economica ottenuta pagando il prezzo del degrado relazionale. L’es. americano mostra che una crescita di questo tipo non può migliorare il benessere. Tale es. mostra come le potenzialità di aumento della felicità legate alla prosperità economica possano andare sprecate se gli individui divengono sempre più diffidenti, più opportunisti, meno solidali, più soli, hanno relazioni intime più difficili ed instabili, e sempre maggiori difficoltà a collaborare e comunicare.
In conclusione, se si ha a cuore il benessere degli individui dovremmo valutare l’impatto sulle relazioni di ogni scelta economica e sociale. Questa idea potrebbe avere vaste applicazioni in una quantità di politiche. Ad es. urbane, ambientali, per il mercato del lavoro, l’organizzazione di impresa, l’infanzia, l’adolescenza, gli anziani, l’istruzione, la salute, ecc.