In Francia il cambiamento strombazzato e promesso per ora ci regala una situazione in cui non si capisce più se il presidente francese è un leader politico o l’ultimo vincitore del Grande Fratello.rn
Il desiderio di cambiamento esiste ma va riempito di contenuti validi.
Può essere utile da questo punto di vista guardare cosa sta succedendo nelle scienze sociali ed in economia perché il dibattito scientifico anticipa e si trasforma in cultura condivisa dopo alcuni anni. Anche tra gli economisti spira il vento del cambiamento. Ai convegni più importanti è sempre più frequente sentire parlare di economia della reciprocità, del dono, si moltiplicano i contributi pubblicati sull’economia della felicità e gli esperimenti che contraddicono il modello dell’uomo lobotomizzato (quell’uomo economico che non conosce simpatia per l’altro e dovere morale) e quello sguardo avvilente che ha prodotto innumerevoli guasti culturali (conoscete quei risultati che dimostrano che tra tutte le “tribù” quella che è meno propensa al dono, alla fiducia e alla generosità è quella degli studenti di economia aziendale ?) .
La tridimensionalità dei problemi sul tappeto (l’asse “materiale” della povertà e della precarietà, quello “ambientale” dell’inquinamento, del riscaldamento globale e dell’invasione dei rifiuti, quello della “qualità della vita” che ci continua a segnalare il deterioramento della vita relazionale e della soddisfazione di vita nelle nostre società) richiede nuove strategie che diano sostanza al cambiamento annunciato. Le vecchie soluzioni figlie di una cultura monodimensionale non funzionano perché risolvono il problema su un asse e lo peggiorano sugli altri. La crescita e produttività come valore unico peggiora la situazione dal lato della sostenibilità ambientale e da quello della soddisfazione di vita e della crisi di relazioni (solo qualche dato tra tanti, negli scorsi sei mesi sono aumentati del 17 percento i consumi di antidepressivi in Italia, aumenta costantemente il numero di morti non seppelliti e abbandonati in obitorio). All’estremo opposto la proposta provocatoria della decrescita ignora i vincoli economici e finanziari in cui ci muoviamo e in primo luogo il problema del debito. E’ come se un genitore monoreddito in una famiglia pesantemente indebitata annunciasse ai familiari che ha deciso di lavorare di meno e di ridursi lo stipendio…
Avanziamo sommessamente una proposta ai politici ansiosi di riempire l’affascinante contenitore del cambiamento. Mettere al centro l’obiettivo della “felicità economicamente ed ambientalmente sostenibile” realizzabile attraverso una strategia che crei valore economico facendo attenzione agli altri due assi (ambientale e sociale). Offrire chiaramente una visione che dia un senso al nostro produrre (il know why e non solo il know how). Investire strategicamente nella cura delle relazioni e creare legami tra le finalità private e quelle sociali nel mondo della produzione (l’invito di qualche tempo fa dell’ex presidente Ciampi secondo cui l’Italia ha bisogno di una visione e di una missione non era infondato). Comprendendo quello che molti studi dimostrano: la vera molla della produttività non è negli incentivi monetari ma nelle motivazioni intrinseche (provate a calcolare la produttività o le ore settimanali lavorate di un missionario o di chiunque ha fatto del proprio lavoro una missione e a confrontarla con chi timbra stancamente un cartellino!) e la qualità delle relazioni tra lavoratori è la sorgente fondamentale della produttività in un mondo in cui l’innovazione è sempre più complessa e richiede il lavoro di squadra di saperi distinti e non intercambiabili (un esempio clamoroso di questo sono le comunità open source e la wikinomics).
Le linee di principio sopra annunciate si possono tradurre in una miriade di proposte molto concrete. Incentivare e promuovere nel settore della produzione quelle imprese o quei settori all’avanguardia nella capacità di creazione di valore economico innovando in termini di efficienza energetica e riducendo la quantità di emissioni per valore creato. Favorire il meccanismo più naturale e spontaneo di redistribuzione del reddito tra Nord e Sud del mondo rappresentato dal fenomeno migratorio sfruttando appieno il suo contributo potenziale a produttività, occupazione e crescita (quanti posti di lavoro abbiamo già creato e non vogliamo riconoscere limitando il numero di lavoratori clandestini che possono regolarizzarsi!). Stimolare ulteriormente la responsabilità sociale d’impresa con regole sugli appalti pubblici che premino la medesima e l’attenzione all’ambiente oltre alla convenienza di prezzo. Attenuare la difficoltà a costruire relazioni stabili e ad investire nel futuro da parte dei giovani contrastando l’ostruzionismo degli insiders con più mobilità verticale e migliori percorsi di accesso e stabilizzazione nel mercato del lavoro. Aumentare i meccanismi di flessibilità che consentono di conciliare tempi di lavoro e famiglia. Infine, chiedere alle imprese di dotarsi di una valutazione di rating sociale che possa stimolare i consumatori ad esercitare con sempre maggiore efficacia il loro “voto con il portafoglio”. Un’iniziativa del genere creerebbe i giusti incentivi affinché la responsabilità sociale ed ambientale non sia soltanto un fardello per l’impresa ma sempre più una variabile competitiva che può aiutarla a conquistare il favore dei consumatori. E la responsabilità sociale d’impresa (quella vera e non soltanto dichiarata) è la chiave di volta per risolvere le tre dimensioni del problema.
Insomma basta avere l’occhio (e leggere un po’ di letteratura scientifica recente) per capire che la parte emersa dell’iceberg (lavoro, capitale, produttività, performance) dipende crucialmente da quella sommersa ed immateriale (autostima, capacità di dare e ricevere fiducia, capitale sociale, beni relazionali, dignità) che solo un’economia della cura e delle relazioni può opportunamente sviluppare. Tutto ciò implica avere visione e la capacità di guardare oltre il proprio ombellico forse con un pizzico di utopia. Difficile ma si può fare.