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Quando come italiani ci lamentiamo del visibile peggioramento delle condizioni economiche degli ultimi tempi dovremmo per prima cosa guardare con ammirazione e gratitudine ai progressi fatti in 150 anni dal momento della nostra nascita come stato nazionale. Nel 1860 la vita media degli italiani era di circa 28 anni ed era salita di soli due anni dall’epoca dell’impero romano. Nel corso di 150 anni abbiamo guadagnato rispetto ai nostri connazionali di allora quasi due vite in più arrivando ad un’aspettativa di vita alla nascita di 79 anni circa per gli uomini e 84 circa per le donne.

La popolazione dal censimento del 1861 (eravamo 26 milioni) è più che raddoppiata. I primi dati disponibili dall’unità d’Italia nel 1863 segnalano una mortalità infantile altissima di 232 bambini morti nel primo anno di età su 1000 nati vivi che scende a 3,5 nel 2008. Dieci anni dopo l’unificazione erano analfabeti 7 italiani su 10 mentre oggi lo sono solo l’1.5 percento della popolazione.
In un secolo e mezzo l’Italia è cresciuta modificando profondamente la propria struttura produttiva ed avvalendosi del progresso tecnologico e medico che ha progressivamente posto le condizioni per il miglioramento della vita del paese. Nel 1861 il 70 percento della popolazione lavorava in agricoltura, il 18 percento nell’industria e il 12 percento in altre attività. I dati del 1981 ci dicono che i servizi assorbono oggi più del 50 percento della forza lavoro mentre quella impiegata in agricoltura è arretrata all’11 percento. Contemporaneamente, sotto la spinta di ideali civili e religiosi che hanno animato e mosso tanti italiani dall’unità ad oggi, i frutti del benessere sono stati progressivamente distribuiti ad una quota sempre più vasta della popolazione. L’Italia oggi è tra i primissimi paesi come ricchezza pro capite con un rapporto ricchezza/PIL di 7,84 (dati Banca d’Italia del 2007) contro i 6,29 della Germania e i 4,76 degli Stati Uniti, e probabilmente il primo se guardiamo alla quota di ricchezza della parte più povera della popolazione.

Tutto questo non ci esime dal constatare che il peggioramento recente c’è stato eccome se concentriamo la nostra attenzione all’ultimo decennio. Uno degli indicatori “nasometrici” più evidenti è il confronto tra la frequenza di ristoranti e località estive oggi e nel passato. Quegli stessi luoghi che quindici anni fa scoppiavano di folla e costringevano a fare file per raggiungere qualunque meta del tempo libero sono quasi deserti. Un dato emblematico che sintetizza quanto sta accadendo è la dinamica del reddito pro capite negli ultimi dieci anni. Da questo punto di vista l’Italia vanta la peggiore performance dei 25 paesi dell’UE con un tasso di crescita medio annuo leggermente negativo mentre tutti gli altri paesi si trovano sul versante positivo.
La decrescita in Italia nell’ultimo decennio non è stata dunque un tema filosofico da discutere in qualche consesso accademico ma la realtà dei fatti. Che sia stata felice non pare proprio. Un dato inquietante ci dice infatti che il consumo di antidepressivi nel paese è raddoppiato dal 2001 al 2009. La sensazione complessiva è che il periodo d’oro durato dal dopoguerra fino agli anni ’70 nel nostro paese sia coinciso con la capacità di tenere in equilibrio grandi valori ideali con il particolarismo ed il campanilismo che ci contraddistingue dai tempi dei comuni. Finita quell’epoca qualcosa si è inceppato nel meccanismo di creazione di valori da parte delle agenzie educative ed è rimasto soltanto il particolarismo. Il progressivo deterioramento di capitale sociale già iniziato nel corso degli anni ’80 è proseguito nel corso degli ultimi decenni accelerato dagli esempi sempre più negativi forniti dalla nostra classe dirigente. Gli italiani lamentano oggi di avere una classe politica non all’altezza (di non avere più i De Gasperi, i Dossetti, i La Pira, gli Einaudi) ma questo non è che lo specchio di un paese con il tasso di evasione fiscale tra i più alti in Europa che considera un diritto non pagare le tasse.

Il progressivo rattrappimento di visioni ideali ha fatto venir meno anche la speranza e la voglia di scommettere sul futuro sia sul piano delle relazioni che su quello della creazione di valore economico. Il paese infatti soffre di una grave crisi di natalità e di vocazioni imprenditoriali che hanno come comun denominatore l’incapacità di mettersi in gioco e di rischiare per generare valore per sé e per gli altri.
Per tutti questi motivi la prima rivoluzione necessaria per rimettere in marcia l’Italia è una rivoluzione culturale. I nuovi filoni di pensiero sociale ed economico ispirati alla dottrina sociale e al personalismo hanno riproposto con forza un’antropologia che parte dal riconoscimento dell’individuo come nesso di relazioni e nella quale la vita buona e la realizzazione del proprio percorso esistenziale dipendono dalla scoperta che si è felici quando si rendono felici le persone che ci sono attorno. Si tratta di filoni di ricerca e di pensiero che si sono conquistati uno spazio non marginale nel panorama culturale internazionale. Parallelamente la ricerca scientifica degli studi sulle determinanti della soddisfazione di vita è oggi in grado di portare evidenze inequivocabili a supporto di questa visione dell’uomo.

La stessa riflessione economica è oggi sempre più consapevole del fatto che l’economia non è altro che un’insieme di giochi e di dilemmi sociali (i cosiddetti giochi della fiducia o dilemmi del prigioniero) nei quali cooperazione e coordinamento consentono di realizzare risultati molto superiori al conflitto disordinato degli egoismi individuali. La possibilità di realizzare questi risultati dipende però in modo cruciale dal cosiddetto capitale sociale, ovvero da quell’insieme di rapporti interpersonali fiduciari, di senso civico e di fiducia nelle istituzioni senza il quale è impossibile realizzare i benefici della cooperazione. Bisogna dunque ricominciare ad investire con forza sull’educazione ai valori una volta compreso il loro ruolo tutt’altro che accessorio di pilastri invisibili del vivere socioeconomico.
La ricerca sui temi della felicità, del capitale sociale, dei beni relazionali non si è fermata alla pura speculazione filosofica ma sempre di più studia, analizza e propone risposte sul campo e soluzioni di policy.
Una prima fondamentale acquisizione nasce dalla verifica dell’efficacia di nuove forme di partecipazione alla vita economica che le caratteristiche mutate dell’economia globale rendono particolarmente efficaci per il perseguimento del bene comune. Le esperienze del microcredito, dei fondi d’investimento etici, delle banche etiche, del commercio equo e solidale e della cooperazione sociale non solo rappresentano meccanismi di incarnazione dei valori nella realtà del mercato ma evidenziano come la realizzazione di piccole quote di mercato grazie al “voto col portafoglio” di consumatori e risparmiatori responsabili sono in grado di generare importanti effetti di contagio nel sistema economico spingendo in maniera decisiva il resto delle imprese massimizzatrici di profitto verso la responsabilità sociale. Il voto con il portafoglio è oggi chiaramente la leva in grado di rimettere in moto quei meccanismi di coesione sociale e di redistribuzione pericolosamente inceppati dall’inizio degli anni ’80 ad oggi. Invertendo quella tendenza alla crescita delle diseguaglianze che è la vera radice profonda della crisi dei consumi delle classi medio-basse che sta alla base degli eccessi di indebitamento e della crisi finanziaria globale.

Le caratteristiche del nuovo scenario globale sono tali che i problemi dell’Italia si giocano e si risolvono in gran parte anche sui tavoli europei ed internazionali. Siamo stati vittime (con colpe molto minori di altri) della crisi finanziaria globale e della successiva depressione dell’economia e oggi siamo vittime dell’incapacità dell’Unione Europea di completare il processo di integrazione fiscale nonché degli opportunismi di paesi come la Grecia che hanno truccato i loro conti creando un problema molto serio alla stabilità dell’euro.
Le soluzioni necessarie per rimettere in sesto l’architettura della finanza mondiale (impedire alle banche di fare trading proprietario con i soldi dei clienti, regolamentare i derivati OTC, ridurre la leva, aumentare requisiti di capitale per le banche molto grandi) sono note da tempo e sono state ribadite in molte sedi ed occasioni come il Financial Stability Forum nell’UE, l’Independent Banking Commission nel Regno Unito e sono diventati legge negli USA con la Dodd-Frank, ma la forza di attuarle fino in fondo manca. Ecco perché, sfruttando l’indignazione dell’opinione pubblica che cresce, bisogna riuscire ad approvare una tassa sulle transazioni finanziarie come primo passo di riequilibrio tra politica e finanza, per ridurre l’incentivo ad operazioni a brevissimo termine e raccogliere risorse per risolvere la crisi proprio laddove la crisi è iniziata e da coloro che l’hanno provocata. Il susseguirsi di scandali finanziari con gravi ripercussioni sociali come quello ultimo dell’UBS dove un trader ha perso 2 miliardi in speculazioni non consentite e la banca ha varato contestualmente un piano di riduzione di costi di 2 miliardi che prevede 3500 licenziamenti, ci fanno pensare a soluzioni ancora più drastiche come il divieto di utilizzo di derivati se non per operazioni di copertura. E’ bene che quel 95 percento di operazioni su derivati che si fanno per puro gusto della scommessa tornino nel settore delle scommesse sportive evitando di alterare valori sensibili per la vita di intere collettività.
Per quanto riguarda i problemi di casa nostra la difficile situazione internazionale va vista come un’occasione per aggredire in maniera decisa il problema del nostro debito pubblico.
L’occasione dell’ultima finanziaria è stata gravemente sprecata con una serie di decisioni paradossali. Si sottolinea l’importanza della sussidiarietà e del ruolo della società civile e si tassano di più le cooperative. Invece di promuovere la rivoluzione verde con le green consumption taxes come in molti paesi del Nord Europa che stimolano innovazione tecnologica in direzione di una maggiore sostenibilità ambientale si sceglie di tassare di più proprio il settore dell’energia. Si istituisce alla fine un’inutile Tobin tax alla rovescia per punire gli ultimi tassando (o pensando di tassare) le rimesse degli irregolari attraverso i canali ufficiali nelle quali le stesse non transitano.
Ora che siamo in dirittura d’arrivo sul pareggio di bilancio e la credibilità dei saldi futuri è stata rafforzata da una norma costituzionale sempre sul pareggio sarebbe opportuna una patrimoniale per riportare il rapporto debito/PIL dal 120 al 90 percento. Si tratterebbe di un intervento che ridurrebbe per un quarto il nostro debito e peserebbe per circa 7000 euro pro capite (ovviamente la patrimoniale porrebbe l’onere di quest’intervento in proporzioni molto maggiori su chi ha maggiori ricchezze). Per raggiungere cifre così elevate si potrebbe attingere in parte a possibili dismissioni edifici pubblici o lavorare sui tagli ai consumi della pubblica amministrazione. In questo modo porteremmo il nostro rapporto in linea con quello dei paesi più virtuosi e libereremmo circa 15 miliardi di lire di minori spese per interessi all’anno. Si tratta di risorse che potrebbero essere utilizzate per stimolare lo sviluppo riducendo gli oneri sul lavoro e sul reddito, diminuendo quindi il prelievo fiscale sulle voci che più direttamente contribuiscono alla creazione di ricchezza aumentando il denominatore del rapporto debito/PIL e contribuendo al contenimento di tale rapporto.
Non è detto che questa scelta si riveli necessariamente più costosa dello scegliere di non far niente. Un sacrificio deciso subito che faccia appello al senso di responsabilità degli italiani ci eviterebbe un continuo stillicidio e una perdita di valore progressiva della ricchezza mobiliare degli italiani che già stiamo vivendo dall’inizio della crisi e aprirebbe la strada ad un recupero tramite riduzione progressiva del prelievo fiscale. Ci tirerebbe definitivamente fuori dai rischi che ancora corriamo in uno scenario internazionale così difficile dove subiamo i contraccolpi della crisi greca.
Avremo il coraggio di prendere questa decisione?

Questo articolo è in in corso di pubblicazione sull’instant book curato da Michele Bagella: La Crisi Finanziaria e l’Economia Italiana.

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