Il nostro Paese ha bisogno di una riforma strutturale delle pensioni, non di un intervento spot. A pagare il prezzo più alto sono certamente le giovani generazioni: coloro che sono nati dopo il 1970, come conferma Bankitalia, non solo oggi devono accontentarsi di lavori precari con salari d’ingresso fermi da oltre un decennio al di sotto dei livelli degli anni 80, ma un domani non avranno di certo diritto a una pensione nemmeno lontanamente paragonabile a quella maturata dai loro genitori. Il 42% dei giovani al di sotto dei 34 anni che oggi lavorano andrà in pensione intorno al 2050 con meno di 1000 euro al mese (dati Censis), per non parlare poi di quanti oggi non sono ancora inseriti nel mondo del lavoro con contratti standard. In base a un recente studio condotto dal CERP di Torino i valori stimati di una pensione annuale lorda di un parasubirdinato sono sconsolanti. Un uomo, ipotizzando un’età di pensionamento a 65 anni, che inizia a lavorare a 25 anni, si ritroverebbe con una pensione lorda annua pari a 8314 euro. Ancora meno per una donna: 5222 euro lordi annui. E’ probabile che per molti parasubordinati le pensioni saranno ancora più basse: questi dati sono stato ottenuti ipotizzando carriere continue, circostanza alquanto improbabile.
È vero che la crisi globale in cui siamo immersi ha prodotto e continuerà a produrre pesanti effetti sulla spesa pensionistica: mentre questa non ha subito riduzioni, anzi è cresciuta, il PIL è crollato, determinandone un aumento progressivo dell’incidenza sui conti pubblici. Ma è anche vero che, a prescindere dalla crisi economica, le pensioni pesano sulla spesa pubblica perché il sistema previdenziale italiano è stato in passato fin troppo generoso e quando è diventato inevitabile far quadrare i conti, ha scaricato sulle generazioni future tutto il peso di un sistema iniquo.
Con queste premesse non possiamo più parlare di futuro senza dare un duro colpo a quel sistema di privilegi che per troppi anni ha penalizzato le giovani generazioni: le pensioni d’oro o le pensioni baby per fare qualche esempio.
E’ giusto quindi mettere al primo posto nell’agenda politica la riforma delle pensioni, a patto però che contestualmente si gettino le basi per un nuovo patto generazionale per poter, citando il cardinale Bagnasco, “garantire le giuste aspettative a ciascuno”.
Ma come è possibile pensare a una riforma della previdenza che punti a tutelare le persone che andranno in pensione tra 30 anni se la politica non è lungimirante, se la politica ha un interesse ridotto ad una visione a breve termine, legata cioè alle scadenze elettorali o a tappare buchi di bilancio dietro le pressioni delle istituzioni sovranazionali? Ben vangano proposte come quella avanzata in questi giorni dal ministro della gioventù secondo cui accanto alla norma sul pareggio di bilancio, andrebbe inserito nella Costituzione anche il principio secondo cui i provvedimenti di spesa non debbano più ricadere sulle generazioni future. Non solo. Ogni intervento sulle pensioni studiato per aumentare le entrate statali, come ad esempio l’aumento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato, dovrebbe fin da subito essere destinato a provvedimenti che vadano a beneficio dei giovani e delle famiglie, i soggetti oggi più deboli e meno tutelati.
Le generazioni future non possono rappresentare solo un problema. Sono la risorsa più importante per il cambiamento e lo sviluppo e da loro è necessario ripartire: attraverso un progetto politico che recuperi la loro fiducia e riaccenda la voglia di scommettere sul futuro.