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Sembra un paradosso: lavorare nella pubblica amministrazione, il paradiso del posto fisso per antonomasia, e ritrovarsi ad essere più “precari” di chi lavora in un’impresa privata. Sì, perché in una pubblica amministrazione bisogna fare i conti con “finanziarie”, “patti di stabilità”, “blocchi del turn over” che nulla hanno a che vedere con la qualità della propria prestazione professionale: assomigliano più alle carte “imprevisti” del Monopoli.

In realtà, la questione dei precari riporta l’attenzione sull’aspetto centrale di qualsiasi progetto di riforma della pubblica amministrazione: la gestione del personale. Oggi nella PA italiana ci sono due categorie ben distinte di lavoratori: si tratta di una distinzione che assomiglia al sistema delle caste indiano perché, a seconda della categoria a cui si appartiene, si hanno condizioni contrattuali, status e prospettive per il futuro completamente diverse. Da una parte ci sono i funzionari a tempo indeterminato, quelli che ce l’hanno fatta, quelli che hanno conquistato il loro “posto al sole” avendo superato il fatidico concorso; dall’altra i precari, quelli che vivono alla giornata, quelli che fino all’ultimo non sanno se il contratto verrà loro rinnovato. Da un lato chi può permettersi una maternità tranquilla e serena, dall’altro chi rischia di perdere tutto con la nascita di un bimbo.
Queste due categorie sono rappresentative dei due movimenti tellurici che stanno scuotendo la pubblica amministrazione, senza ancora aver portato ad un assestamento stabile. Da un lato c’è la forza della tradizione, quella che vede la pubblica amministrazione come la paladina del diritto, della garanzia, dell’imparzialità, della correttezza delle procedure. Dall’altro c’è la forza della trasformazione, quella che vorrebbe pubbliche amministrazioni efficienti, orientate ai risultati, alla customer satisfaction, alla flessibilità. Siccome nessuna delle due forze ha avuto la meglio sull’altra e nemmeno è emerso un modello capace di integrare in maniera convincente le due, ci si è spartiti il campo di battaglia: da un lato i “supergarantiti”, dall’altro i “superflessibili”.

Proviamo ad analizzare la questione dal punto di vista delle istituzioni pubbliche e non dei singoli lavoratori. Certamente, questo non significa tralasciare il criterio dell’equità. Per le pubbliche amministrazioni, così come per qualsiasi datore di lavoro, trattare con giustizia tutti i propri collaboratori è una condizione necessaria non solo sotto il profilo etico, ma anche per l’efficienza del lavoro. Oggi la dicotomia tra “supergarantiti” e “superflessibili” mostra disparità tanto inique e intollerabili da compromettere la costruzione di un clima organizzativo decente.
Una seconda riflessione riguarda la credibilità delle azioni di governo del sistema pubblico. Nonostante tutte le finanziarie, i blocchi delle assunzioni e gli altri interventi legislativi di emergenza, non si è giunti a risolvere il problema della spesa pubblica, ma anzi, accanto ad esso se ne è aperto un altro: quello dei precari. Si tratta dell’ennesima dimostrazione che non basta imporre una norma di legge per fare le riforme. Se non si tiene conto delle dinamiche effettive sul campo, della varietà dei casi concreti, della necessità di affrontare in modo diverso situazioni diverse, ogni legge sarà solo un “imprevisto” da aggirare. Occorre tener presente che, senza i precari, molti servizi essenziali non si sarebbero potuti erogare a causa dei blocchi alle assunzioni imposti “alla cieca”.
In terzo luogo, occorre tener conto del fatto che spesso ricorrere ai precari rimane il modo più funzionale per disporre di risorse umane dinamiche e qualificate per realizzare interventi pubblici efficaci che il sistema dei “supergarantiti” non è in grado di realizzare. Questo impone di considerare alcuni aspetti cruciali. Innanzitutto quello dei sistemi di selezione. Dietro il paravento dell’imparzialità e dell’oggettività, si organizzano prove di concorso da cui possono uscire ottimi burocrati ottocenteschi, non certo funzionari pubblici dinamici ed innovativi: nessun tentativo di valutare attitudini e potenziale, capacità innovativa, capacità di “problem solving”. Bisogna poi considerare il problema della crescita professionale, della formazione, della flessibilità e della motivazione di chi ha conquistato il tempo indeterminato: anche qui, si tratta di dotare le pubbliche amministrazioni di politiche e strumenti per la gestione delle risorse umane finalmente adeguate ai tempi.

A parole, tutti d’accordo, ma quando si passa alla pratica…

Un esempio. Unanimemente si riconosce che i segretari comunali debbano avere la stoffa dei manager: essere professionisti orientati ai risultati, e non “burocrati”. Capita, però, che la prova pre-selettiva per l’accesso al corso-concorso per la carriera di segretario comunale imponga, di fatto, ai candidati di studiare a memoria qualche migliaio di risposte a quiz. Proviamo ad immaginarci quali candidati hanno le migliori chance di superare la prova: si deve trattare di persone puntigliose e meticolose, meglio se piuttosto ossessive, con molta capacità analitica (non certo sintetica), con tanto tempo a disposizione e nulla di meglio da fare che esercitarsi in un’attività che ai più appare senza senso e senza altra utilità che quella di superare il concorso. Ciascuno giudichi se questi sono i tratti attitudinali tipici del manager pubblico innovativo che si va cercando. In ogni caso si continua a credere che questo sia il metodo più oggettivo per assicurare la tanto decantata “meritocrazia”.
Quindi, anche dietro alla soluzione del problema dei precari non può esserci che un disegno di riforma forte, che (si) chiarisca quale tipo di pubbliche amministrazioni servono all’Italia e, di conseguenza, quale tipo di funzionari pubblici. Altrimenti, è inevitabile cadere in soluzioni pasticciate come le sanatorie, che di certo non brillano per equità e ripropongono la politica della distribuzione di “benefici privati” a fini elettorali piuttosto che la politica lungimirante del “bene comune”.

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