L’introduzione del Reddito di inclusione (REI) rappresenta un importante punto di svolta per lo stato sociale italiano. Come è noto, strumenti simili per il contrasto alla povertà esistono da decenni nella stragrande maggioranza dei paesi UE. Nelle nazioni in via di sviluppo (dal Brasile alla Costa d’Avorio), il welfare viene oggi costruito partendo proprio da questo tassello, che si rivolge ai poveri indipendentemente dall’età o dalla disabilità. L’Italia ha seguito il percorso inverso. Nel passato ha sempre privilegiato le pensioni, con formule di calcolo molto generose, mentre ha platealmente trascurato il rischio “insufficienza di reddito” in quanto tale.
Per le note e croniche anomalie del nostro mercato del lavoro e del sistema di tutele contro la mancanza di occupazione, tale rischio ha riguardato soprattutto le famiglie numerose debolmente connesse al mercato, in particolare (ma non esclusivamente) nel Mezzogiorno. Ciò ha penalizzato fortemente soprattutto i minori. Non è un caso se i nostri tassi di povertà minorile sono fra i più alti d’Europa.
E’ vero che, dagli anni settanta in avanti, molte regioni e comuni hanno introdotto e rafforzato nel corso del tempo diverse misure contro l’esclusione sociale in quanto tale, entro quadri normativi “soft” che menzionavano esplicitamente prestazioni di “universalismo selettivo” come il minimo vitale, il reddito minimo di inserimento e così via. Ma tali schemi erano costruiti su sabbie mobili, in particolare dal punto di vista finanziario. L’ammontare complessivo delle risorse disponibili era definito anno per anno, su base prevalentemente discrezionale e contingente. Le regioni non possono poi, come è noto, introdurre diritti soggettivi permanenti ed esigibili.
Il REI è invece una misura “strutturale”, ossia una voce permanente del bilancio pubblico. E chi soddisfa i requisiti avrà una spettanza tutelata dalla legge e dunque esigibile e giustiziabile. Di questi tempi è raro che vengano introdotti nuovi diritti. Eppure è successo: dal primo dicembre 2017 il REI è un diritto sociale a tutti gli effetti, valido su tutto il territorio della Repubblica italiana. Per una volta possiamo rallegraci.
Il reddito minimo garantito era già stato discusso e proposto in varie forme dalla Commissione povertà nei primi anni Novanta. Riconoscendo esplicitamente la “doppia distorsione” del sistema di welfare (allocativa e distributiva) e il suo impatto negativo sulle persone più bisognose, il Rapporto della Commissione Onofri incluse l’introduzione di un reddito minimo garantito fra le sue raccomandazioni del 1997. Oggetto di varie sperimentazioni fra la fine degli anni Novanta e il 2001, la sua attuazione non era però mai riuscita a entrare sul serio nell’agenda politica, a suscitare robusti sostegni all’interno dei partiti e delle istituzioni. La sperimentazione mise poi in luce diversi problemi, incluso quello delle infiltrazioni mafiose.
La riforma Turco del 2001 (Legge quadro sull’assistenza e i servizi sociali) prevedeva comunque l’istituzione di uno schema nazionale. Contemporaneamente, tuttavia, la riforma del titolo V della Costituzione, varata nello stesso anno, erose le pre-condizioni istituzionali per uno schema nazionale. Il rafforzamento delle competenze regionali in materia di assistenza sociale rese infatti molto più difficile una iniziativa diretta dello stato centrale, originando peraltro un puntiglioso quanto sterile contenzioso fra le parti.
Il tema del reddito minimo si è riaffacciato fattivamente nell’agenda politica a partire dai governi Letta e Renzi. Senza negare la sensibilità e il contributo di quei governi e, naturalmente, di quello guidato da Gentiloni, buona parte del merito va riconosciuto alla Alleanza contro la povertà, un gruppo di 35 organizzazioni della società civile costituitosi nel 2013. L’Alleanza non si è limitata ad aggregare interessi e consensi, ma ha anche formulato utili proposte. Una vicenda in controtendenza rispetto a quel declino dei corpi intermedi di cui tanto si parla. E anche un esempio, diciamolo, di buona politica, osservato con attenzione da molti osservatori stranieri.
Il REI risolverà il problema della povertà? Certamente no, è solo un primo passo. Le risorse non sono molte (è previsto un loro graduale incremento), le prestazioni hanno importi modesti. I requisiti sono stringenti, di fatto i beneficiari saranno solo la metà dei poveri. Quanto ai comuni, saranno capaci di realizzare progetti di attivazione efficaci? E’ un grosso punto interrogativo. La legge sul REI prevede il potenziamento dei servizi e la formazione degli operatori locali. Su questo fronte è bene però che si attivino anche gli attori del “secondo welfare”, a cominciare proprio dalle associazioni che fanno parte dell’Alleanza. Il successo del REI dovrà essere misurato non solo in termini di alleviamento temporaneo della povertà, ma soprattutto in termini di recupero dell’autonomia.
C’è poi una questione più ampia. Il nostro paese ha alti livelli di povertà anche perché mancano i posti di lavoro. Non è tanto colpa della crisi, né tantomeno della riforma Fornero. E’ un deficit cronico che ci portiamo dietro dagli anni Cinquanta: i nostri livelli di occupazione sono sempre stati circa dieci punti più bassi rispetto alla media UE. Quel che è peggio, mancano posti di lavoro in quei settori del terziario che possono dare occupazione a chi ha basse qualifiche. Nei servizi alla persona e alle famiglie (la cosiddetta economia sociale) in Francia ci sono almeno due milioni di posti in più a confronto con l’Italia.
La lotta alla povertà va condotta su più fronti. Lavoro e Welfare (una buona attuazione del REI, in primis) innanzitutto. E poi istruzione, formazione, conciliazione, servizi per le famiglie, incentivi alla creazione di nuovi mercati. Una sfida complessa, ma ineludibile; che richiede molte riforme ora, con effetti lenti e graduali. Purtroppo stiamo entrando in una lunga fase elettorale. Sul tema povertà si abbatterà il polverone del “reddito di cittadinanza” cavalcato dai Cinque Stelle. Sarà fin troppo facile dire che 780 euro a tutti (spesso si omette di precisare che si tratterebbe solo dei più bisognosi) sono meglio di quanto prevede il REI. E altrettanto facile sarà rilanciare sciorinando bonus, o promettendo pensioni minime a mille euro e fantomatici nuovi “redditi di dignità”. Di lavoro, capitale umano, nuovi mercati, investimenti (e come finanziarli), non ci sarà invece tempo di parlare. La cattiva politica si tiene lontana dal lungo periodo: che ci pensino pure le prossime generazioni.
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