Può darsi che proprio la politica sia il campo, come si pensa comunemente, in cui le parole vengono più facilmente disattese o tradite nei fatti. Non è sempre vero, e non più che in altri campi dell’agire umano, come l’amore o l’economia o il lavoro. Le parole sono importanti per capire che cosa sta succedendo. Dunque succede che la forza politica erede di una lunga tradizione che si rifaceva al «conflitto sociale» (categoria figliastra della «lotta di classe») sta ora usando tali parole per dichiarare la propria identità e il fine della propria azione. Le aree politiche che maggiormente cercano il «conflitto» come propulsore sociale sono diventate altre.
Non più in nome delle disuguaglianze, ma di certi sventolati ideali di legalismo, o di moralismo. Forze che, favorite dal permanere di zone opache nell’azione di più di un politico, hanno spostato su questo esclusivo piano l’elemento della protesta, quasi sempre portata avanti da ceti che un giorno si sarebbero detti borghesi o intellettuali.
Qualcuno, come Dario Di Vico nei giorni scorsi sempre sul ‘Corriere’, sostiene che la sinistra in Italia sia oggi uno spazio culturale più che una vera e propria offerta politica.
Forse è vero il contrario, e a fronte di un’azione politica cospicua, quel che manca al partito che maggiormente vuole rappresentare una forza democratica-sociale è piuttosto una approfondita revisione e apertura culturale.
L’affiorare di queste parole – «comunità», «tessuto connettivo» – nel lessico comune potrebbe essere un’occasione per l’ approfondimento. Certo, è sempre possibile che vengano usate più per il sapore polemico che possono contenere nei confronti di parole opposte, come «individualismo» o «separatismo» che, a parere del partito di centrosinistra, connotano la cultura e l’azione di forze avverse. Ma, insisto, se non sono usate a vanvera sono una grande occasione. Va comunque preso sul serio l’uso di certe parole. E sarebbe interessante che non si lasciassero lì senza cercare di guardarci sotto. Infatti sotto queste parole (nella loro storia e nel significato con cui sono state usate nel nostro Paese e non solo) si possono celare tesori per chi voglia tener alto un ideale nell’azione politica.
La parola «comunità», ad esempio, obbliga chiunque la usi ad avere in mente e in cuore quali siano gli elementi, i fatti, le vicissitudini che fondano una comunità. Con spirito libero e aperto. E, d’altro canto, a immaginare quali azioni favoriscono la maggior espressione e il maggior rispetto di quegli elementi e quali altre azioni, invece, tendono a violarli.
L’occasione dunque di guardare dentro a queste parole affiorate e di usarle con la coscienza del loro rilievo storico e del valore che implicano è, a mio avviso, una occasione importante per il Partito democratico. Sono parole, per così dire, innaffiate lungo i secoli dalla straordinaria vitalità del fare comunità della tradizione cattolica, ma anche dalla capacità di stabilire prassi comunitarie in ambito socialista. Parole usate con grande consapevolezza da maestri (teorici o pratici) dell’azione sociale, da don Bosco a don Milani, da Mc Intyre a, non ultimi, i recenti Papi nei documenti di dottrina sociale. Una parola come «comunità» è da usare con senso delle conseguenze, oltre che delle radici. Altrimenti, mentre la si usa accade di svuotarla. In modo radicale, e quell’aggettivo ha, purtroppo, un significato compiutamente politico. Ma nessuno, tantomeno in questo momento delicato, può permettersi di svuotare parole ricche di senso per superficialità o assenza di azioni conseguenti. È invece l’occasione per dare sapore ancora maggiore alle parole. Il sapore della cultura e della vita reale. Il sapore delle scelte coerenti che rivelano il senso delle parole che si usano. *questo articolo è stato pubblicato su Avvenire di domenica 11 aprile
Non più in nome delle disuguaglianze, ma di certi sventolati ideali di legalismo, o di moralismo. Forze che, favorite dal permanere di zone opache nell’azione di più di un politico, hanno spostato su questo esclusivo piano l’elemento della protesta, quasi sempre portata avanti da ceti che un giorno si sarebbero detti borghesi o intellettuali.
Qualcuno, come Dario Di Vico nei giorni scorsi sempre sul ‘Corriere’, sostiene che la sinistra in Italia sia oggi uno spazio culturale più che una vera e propria offerta politica.
Forse è vero il contrario, e a fronte di un’azione politica cospicua, quel che manca al partito che maggiormente vuole rappresentare una forza democratica-sociale è piuttosto una approfondita revisione e apertura culturale.
L’affiorare di queste parole – «comunità», «tessuto connettivo» – nel lessico comune potrebbe essere un’occasione per l’ approfondimento. Certo, è sempre possibile che vengano usate più per il sapore polemico che possono contenere nei confronti di parole opposte, come «individualismo» o «separatismo» che, a parere del partito di centrosinistra, connotano la cultura e l’azione di forze avverse. Ma, insisto, se non sono usate a vanvera sono una grande occasione. Va comunque preso sul serio l’uso di certe parole. E sarebbe interessante che non si lasciassero lì senza cercare di guardarci sotto. Infatti sotto queste parole (nella loro storia e nel significato con cui sono state usate nel nostro Paese e non solo) si possono celare tesori per chi voglia tener alto un ideale nell’azione politica.
La parola «comunità», ad esempio, obbliga chiunque la usi ad avere in mente e in cuore quali siano gli elementi, i fatti, le vicissitudini che fondano una comunità. Con spirito libero e aperto. E, d’altro canto, a immaginare quali azioni favoriscono la maggior espressione e il maggior rispetto di quegli elementi e quali altre azioni, invece, tendono a violarli.
L’occasione dunque di guardare dentro a queste parole affiorate e di usarle con la coscienza del loro rilievo storico e del valore che implicano è, a mio avviso, una occasione importante per il Partito democratico. Sono parole, per così dire, innaffiate lungo i secoli dalla straordinaria vitalità del fare comunità della tradizione cattolica, ma anche dalla capacità di stabilire prassi comunitarie in ambito socialista. Parole usate con grande consapevolezza da maestri (teorici o pratici) dell’azione sociale, da don Bosco a don Milani, da Mc Intyre a, non ultimi, i recenti Papi nei documenti di dottrina sociale. Una parola come «comunità» è da usare con senso delle conseguenze, oltre che delle radici. Altrimenti, mentre la si usa accade di svuotarla. In modo radicale, e quell’aggettivo ha, purtroppo, un significato compiutamente politico. Ma nessuno, tantomeno in questo momento delicato, può permettersi di svuotare parole ricche di senso per superficialità o assenza di azioni conseguenti. È invece l’occasione per dare sapore ancora maggiore alle parole. Il sapore della cultura e della vita reale. Il sapore delle scelte coerenti che rivelano il senso delle parole che si usano. *questo articolo è stato pubblicato su Avvenire di domenica 11 aprile