Pur non volendo addentrarci nell’analisi della recente competizione elettorale, riteniamo opportuno accennare ad alcune questioni, utili per leggere questo momento della vita politica del nostro Paese. È certamente da rilevare l’aumentata quota dei non votanti, che mi pare segnali una progressiva sfiducia nei confronti della politica. rnrnrnrnrnrnrn

L’ombra dell’antipolitica si allarga, congiuntamente alla crescita dei partiti che hanno una forte componente territoriale, o che provano a cavalcare l’onda lunga della radicalizzazione dello scontro istituzionale. rnrnrnrnrnrn

Altre due componenti si sono variamente intrecciate. Mi riferisco alla sempre più frequente spettacolarizzazione dello scontro politico, con il connesso innalzamento dei toni e le relative semplificazioni elettoralistiche. E, inoltre, alla diffusa tendenza a personalizzare, in modo spesso davvero insopportabile, la dialettica e il conflitto tra gli schieramenti.

Questi fattori comportano, altresì, un certo mascheramento delle istanze programmatiche e dei punti focali delle varie proposte politiche; fino al punto che spesso non si riesce con chiarezza a distinguere né le posizioni tra le parti in campo, né le differenze. Ora delle due l’una: o non ci sono significative diversità, oppure il dibattito pubblico in Italia si è negli ultimi decenni progressivamente deteriorato, a scapito della partecipazione sociale, e della corretta informazione sullo stato di salute della Repubblica. La teoria politica ci insegna che lo Stato liberale per poter superare le sue crisi ha necessariamente bisogno del responsabile concorso dei cittadini, e quindi di un’opinione pubblica all’altezza dei principi stessi della democrazia. La dimensione della cittadinanza è tanto più funzionale alla buona vita della nazione quanto più essa risulta consapevole e ricca di azioni partecipative.

Preoccupante è il tasso di conflittualità che il dibattito tra i partiti frequentemente assume, ma è da guardare in modo ancor più grave che questo possa avvenire nella diffusa indifferenza, complice forse un servizio informativo contraddittorio e quasi militarizzato.

In questo clima si sta lentamente tornando a parlare di grandi riforme, di cambiamenti strutturali della amministrazione pubblica, di miglioramento delle politiche sociali. Si è fatto qualche accenno anche alla necessità di riforme condivise, ma questo è un ritornello che da troppi anni sentiamo, senza che ci siano grandi conseguenze. Speriamo che, nonostante i tempi non sembrino ideali, si mettano fattivamente in agenda le urgenze del Paese, a cominciare dalla riforma del welfare e da efficaci strumenti per il superamento della crisi economica, che le famiglie italiane continuano drammaticamente a sperimentare.

Auguriamoci una fase di distensione in cui si intervenga sulle questioni che affliggono la vita degli italiani, sapendo che la condizione essenziale – come più volte si è detto nelle colonne di questa rivista – è la buona politica e la sana progettualità sociale.

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