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Il confronto sulla riforma della legge sulla cittadinanza ha assunto toni tutt’altro che civili e poco utili a informare l’opinione pubblica. Ci si arrocca nel rifiuto e nell’intolleranza perché non si è in grado di immaginare un’organizzazione sociale diversa, a causa del consumarsi di una crisi di cittadinanza e di democrazia. La riforma non è una concessione ma è il primo passo di un cammino collettivo in cui la partecipazione è anche sinonimo di rappresentatività e responsabilità condivise…

Il confronto sulla riforma della legge sulla cittadinanza ha assunto toni tutt’altro che civili e poco utili a informare l’opinione pubblica, oggi ridotta a semplice tifoseria. Ci ritroviamo in un paese spaventato dal proprio futuro, una sensazione suscitata continuamente dalle fuorvianti affermazioni di chi vede in questo dibattito terreno fertile per ribadire che la negazione dei diritti altrui è garanzia per i propri. La storia però, sostenuta da tutti gli strumenti di cui ci si è predisposti nel tempo, ci consegna un’intramontabile verità, ovvero che i diritti sono indivisibili per cui “prima tutti o nessuno”.

Siamo testimoni di uno straordinario problema simbolico, rivelatore dell’impreparazione culturale di una certa politica, incapace di cogliere la necessità e la lungimiranza di un passo simile. D’altronde la politica italiana, ha sempre proceduto a passo lento rispetto alla società civile, dove il diretto confronto è costantemente di stimolo per incontri e scontri, ma anche per sperimentazioni e prassi di nuove strategie di convivenza. Da questa certezza bisogna ripartire, riaffermando l’urgenza di dotarsi di uno strumento adeguato per includere chi l’emigrazione l’ha subita involontariamente. E’ il tempo odierno a imporcela, perché i confini culturali, stanno ridefinendo anche quelli geografici e la testimonianza tangibile di questo cambiamento sono gli oltre 800 mila bambini e bambine, nati e/o cresciuti in Italia, sulla pelle dei quali e sui loro tratti si gioca una partita importante, un passo culturale decisivo.

La franchezza è essenziale per convincerci di procedere nel verso giusto, ed è opportuno chiarire che questa non è semplicemente una riforma legislativa. E’ innanzitutto una presa di coscienza culturale e sociale, che ridisegnerà il nostro immaginario collettivo, smonterà vecchi stereotipi per rimontarne di nuovi, affinerà politiche inadeguate, ribalterà statistiche sbilanciate e bonificherà il disonesto linguaggio con cui si descrivono persone e contesti. Sarà un processo lungo e faticoso, ma assolutamente vincolante alla scelta di procedere verso un futuro comune oppure sospendere il processo di crescita dell’Italia.

Il nostro paese ha bisogno di riconoscere per riconoscersi, offrendo la possibilità a chi vi nasce e cresce di essere ambasciatore della cultura, della storia e dei valori italiani. La riforma è uno strumento doveroso per agevolare il processo di integrazione e definire finalmente un modello convincente, capace di valorizzare le persone, rendendole cittadine e cittadini a tutti gli effetti, senza distinzione od ostacolo alcuno.

A noi sta oggi decidere se prevenire o curare gli effetti perversi di una squilibrata relazione tra figli della stessa nazione. E’ innegabile che ai bambini con background migratorio siano assicurati medesimi diritti dei propri coetanei, ma è altrettanto evidente che non dispongano delle stesse prospettive. Si tratta dunque di non limitare gli sforzi all’uguaglianza degli strumenti, ma garantire una libera ed equa aspettativa, per non rendere invano l’investimento fatto sui futuri adulti del nostro paese, sulla prossima classe dirigente.

Oggi ci si arrocca nel rifiuto e nell’intolleranza perché non si è in grado di immaginare un’organizzazione sociale diversa, a causa del consumarsi della crisi di cittadinanza e di conseguenza della democrazia.

La riforma di per sé non è certamente una concessione, tantomeno è priva di obblighi, ma è il primo passo di un cammino collettivo in cui la partecipazione è anche sinonimo di rappresentatività e responsabilità condivise. Proprio quel che oggi manca, come testimonia l’esclusione dal dibattito dei diretti interessati, seppur lo siamo tutti. Probabilmente il pantano politico di questa riforma è dovuto anche alla poca cautela dei passi compiuti. Certamente se il diritto di voto ai cittadini di origine straniera fosse stato un primo baluardo conquistato, i giovani con background migratorio avrebbero maggior voce in capitolo e il peso politico che ne consegue avrebbe condizionato diversamente i tempi e i modi di una decisione così rilevante.

Ecco, in questo frangente si inserisce il Coordinamento Nazionale delle Nuove Generazioni Italiane, che ha avuto il suo avvio nel 2014, in seno al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Con le sue oltre trenta associazioni, sparse su tutto il territorio italiano e rappresentative di una autentica pluralità nazionale ed internazionale, il CoNNGI si fa portatore in prima persona delle loro istanze e delle loro aspettative, dialogando con le istituzioni e partecipando attivamente nei diversi tavoli istituzionali. Il fine è quello di contribuire tangibilmente alla definizione delle politiche nazionali, portando il punto di vista dei giovani con background migratorio sia come esperienze personali dei singoli individui, che come prassi e sperimentazioni educative, culturali e sociali delle diverse organizzazioni che ne fanno parte. Il nostro è un percorso di autonomia sociale e politica, che anticipa nel presente un futuro prossimo dove a rappresentare l’Italia saranno cittadine e cittadini di cui l’identità sarà il compromesso fra più elementi culturali retti da solidi principi costituzionali.

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