Incontro in metropolitana
Qualche mese fa sulla Metro C di Roma ho incontrato Federica, la conoscevo solo di vista perché nuotava nella squadra di mia moglie. Dopo qualche frase di circostanza sul gran caldo, si raccomanda con me di seguire la prossima puntata della trasmissione Presa Diretta perché è stata invitata a raccontare la sua esperienza di «scontrinista». Non capisco bene cosa intenda con quell’espressione e mi faccio spiegare. Federica da cinque anni lavora in una associazione che opera all’interno della Biblioteca Nazionale di Roma. In teoria, si tratterebbe di volontariato culturale per il quale è previsto solo un rimborso spese, nella pratica, mi racconta Federica, la sua attività è sottoposta alle stesse regole di qualsiasi altro lavoratore: turni, orari, giorni di riposo, permessi, lei in particolare si occupa di catalogare i nuovi volumi acquisiti dalla biblioteca. Il tutto senza un contratto e con una retribuzione di circa 400 euro al mese, per ottenere la quale bisogna giustificare le spese presentando degli scontrini fiscali che in qualche modo evidenzino che si tratta di un rimborso spese. Per cui ogni mese chiede a genitori, parenti e amici di metterle da parte scontrini e ricevute della spesa al supermercato, dei rifornimenti di benzina e di qualsiasi altra spesa “rendicontabile”.
Non è la sola in questa situazione, ci sono almeno dieci colleghi nella sua stessa situazione. Resto sorpreso dal racconto e inizio a seguire la “vertenza”, sui giornali e sui social media: purtroppo la questione non evolve bene per i lavoratori, vengono licenziati via sms nel mese di maggio 2017. Di recente, la Biblioteca nazionale è tornata sui giornali per aver sostituito gli «scontrinisti», con dei lavoratori in somministrazione assunti tramite un’agenzia interinale. Allora aveva ragione Federica: era lavoro, non volontariato! Nei prossimi mesi, la vicenda degli pseudo-volontari avrà sicuramente altre puntate (a ottobre la questione è finita alla Procura della Repubblica) e onestamente spero che si trovi il modo rendere giustizia a questi ventidue lavoratori. Penso però che la storia di Federica, oltre a rappresentare una forma inedita di precarizzazione del lavoro, racconti anche altre cose.
Lavori aspirazionali
Federica ha da poco compiuto trent’anni, vive a casa con i genitori, è laureata in «Beni culturali», quando lavorava alla biblioteca, per integrare i quattrocento euro al mese faceva la pet-sitter (porta a spasso il tuo cane quando non ci sei e riempie le ciotole ai tuoi gatti), adesso questo lavoro penso sia diventato la sua attività principale, in attesa di tornare a fare quello per il quale aveva studiato e che, nonostante le condizioni penalizzanti, le piaceva. Lavorare in una delle principali istituzioni culturali italiane è un «lavoro aspirazionale», ossia un impiego che corona il percorso formativo, soddisfa le attese occupazionali dell’individuo, conferma l’auto-percezione professionale e, in ultima analisi, è fonte di senso. Emma Cook e Brooke Duffy sono due studiose che hanno dedicato interessanti studi al lavoro aspirazionale dei giovani: la prima studiando i freeter giapponesi, ossia giovani con titoli di studio terziari che scelgono deliberatamente un lavoro part-time e poco qualificato per avere tempo da dedicare alle proprie aspirazioni personali, spesso di tipo artistico e creativo (Emma E. Cook, 2016); la seconda, invece si è interessata alla carriera delle fashion blogger e di recente ha pubblicato un volume dal titolo indicativo: non ho bisogno di essere pagato per fare ciò che amo ((Brooke E. Duffy, 2017).
Al di là delle evidenti peculiarità dei casi di studio appena citati, penso che il concetto di lavoro aspirazionale aiuti a collocare nella giusta prospettiva alcuni fenomeni più generali, così come la storia di Federica e degli scontrinisti.
Deroghe e promesse
Nella ricerca presentata dall’Iref, nel corso del 50° Incontro Nazionale di Studi delle Acli, era dedicato un ampio spazio a una particolare forma di lavoro in deroga, derivante dalla volontà dei giovani di perseguire il personale progetto professionale. La survey metteva in mostra come ci fosse un’ampia disponibilità da parte degli intervistati a derogare rispetto ai propri diritti e a lavorare in condizioni penalizzanti a patto di poter fare il lavoro che piaceva. Lavorare più ore degli altri, nel tempo libero o nel fine settimana, essere pagati poco o per nulla sono tutte concessioni che una buona parte dei giovani sarebbe disponibile a fare pur di dare forma alle proprie aspirazioni professionali. Penso che anche Federica si sia più volte posta la domanda del perché stesse accettando di lavorare in un regime tanto singolare come quello dello scontrinista.
D’altronde, un qualsiasi lavoro part-time da 400 euro al mese non è un’occupazione impossibile da trovare, tuttavia l’idea di “mettere un piede dentro” un’istituzione culturale come la Biblioteca Nazionale era troppo allettante per lasciarsela sfuggire. Questo dovrà aver pensato cinque anni fa all’inizio della sua esperienza lavorativa: una giovane laureata in cerca di opportunità e piena di aspirazioni. Questo è quello che pensa la Intern Nation, ossia il corrispondente anglosassone della nostrana “Repubblica degli stagisti”. Ross Perlin (2012) ha dedicato un documentatissimo studio all’uso e all’abuso del tirocinio nelle aziende americane (il sottotitolo del volume è fulminante: come guadagnare niente e imparare poco nella nuova economia).
La ricerca di Perlin, oltre a smascherare le convenienze economiche delle aziende che sfruttano gli intern e a far giustamente notare che solo persone ricche possono permettersi periodi medio-lunghi di lavoro gratis, mette in primo piano il nesso tra aspirazioni professionali e disponibilità al lavoro in deroga: il motore è la promessa. La promessa di un futuro impiego “regolare”, di fare un’esperienza che successivi datori di lavoro possano valutare positivamente, di vivere un’ambiente lavorativo nel quale fare le conoscenze giuste. La promessa raramente è mantenuta, molto più spesso tradita. La conseguenza è che, per seguire la propria vocazione professionale, ci si ritrova a passare da un’esperienza all’altra o intrappolati in un ibrido illegale come il lavoro “a scontrini”.