L’idea di sviluppo da cui parte la mia proposta modifica radicalmente quella che ha caratterizzato la storia del nostro Mezzogiorno. Negli ultimi 60 anni infatti, si è sempre investito per la crescita economica e per il superamento del divario che è di fatto diventato il criterio unico di misurazione della cosiddetta “questione meridionale”. La ricerca di soluzioni, le scelte politiche e gli interventi realizzati nel corso dei decenni passati sono stati condizionati da questo obiettivo: avvicinare quanto più possibile il livello di Prodotto Interno Lordo del Mezzogiorno a quello delle regioni centro-settentrionali.
Da qui sono scaturiti gli aiuti economici alle regioni del Sud che non hanno portato ai risultati sperati. Non solo: aver fissato un obiettivo molto ambizioso ha determinato un senso di impotenza rispetto all’obiettivo stesso e, quindi, pericolosi processi di deresponsabilizzazione.
Lo sviluppo immaginato è stato, di fatto, “eterodiretto”, distratto rispetto alle spinte locali, ai soggetti emergenti, e ha seguito solo una logica quantitativa rischiando di ridurre il dibattito alla misurazione delle risorse finanziarie trasferite.
Questo approccio ha creato delle distorsioni nel sistema: sottovalutazione delle potenzialità di sviluppo locale; scarsa attenzione alle risorse del territorio e, in generale, alla domanda e alla “progettazione”, nel senso vero del termine e non come attività burocratica tesa a dimostrare requisiti formali e a predisporre documentazioni.
In queste dinamiche, in cui la politica e gli interventi sono definiti in modo autoreferenziale dall’ offerta, si finanziano iniziative “inutili”, si pubblicano bandi spesso addirittura incomprensibili: l’importante è spendere, l’importante è ottenere qualche finanziamento.
Questa cultura dello sviluppo ha, tra l’altro, promosso reti prevalentemente verticali. L’obiettivo diventa quello di parlare con il centro (Cassa del Mezzogiorno, Agenzia, Ministero, Dipartimento, Regione, Bruxelles), avere un filo diretto con chi prende le decisioni che contano.
Da qui la grande difficoltà di fare rete orizzontale al Sud: nelle industrie, come nella ricerca; nella cultura come nel sociale, non si cerca l’aggregazione orizzontale, ma si lotta per il miglior posizionamento nelle filiere verticali. Di conseguenza le grandi e non rare eccellenze dei nostri territori si nascondono; non contaminano il territorio, anzi temono di esserne contaminati.
Ma allora non c’è via d’uscita? Il Sud è condannato ad uno sviluppo “incompleto” e non possiamo fare nulla?
Le posizioni sono diverse. C’è chi sostiene che, a questo punto, la questione meridionale non abbia soluzione e questo genera ovviamente senso di impotenza, rassegnazione. Altri ritengono che trasferire risorse al Sud sia inutile perché non genera cambiamenti significativi ma soltanto sprechi. Una posizione che ha alimentato, nel corso dei decenni, perfino logiche secessioniste. Dall’altra parte c’è invece chi rivendica queste risorse come assolutamente necessarie e finora insufficienti per garantire uno sviluppo reale del Mezzogiorno. Contrapposizioni sterili, che non offrono soluzioni, non cercano alternative, non provocano discontinuità e proposte di innovazione delle politiche per il Sud. Anzi, nonostante le esperienze fallimentari del passato, sembra che la convinzione più diffusa rimanga quella legata ad uno sviluppo del Mezzogiorno assolutamente dipendente dalla crescita economica e, dunque, da una riduzione significativa e stabile del divario dal PIL del Nord. Questa posizione dominante è chiaramente sottolineata dalla mancanza di fiducia e dall’atteggiamento con cui vengono sottovalutate proposte alternative e differenti.
I problemi del Sud sono gravissimi ma non riferibili esclusivamente al differenziale di reddito rispetto al Nord del Paese. Quello che voglio dire è che ovviamente le risorse finanziarie destinate al Mezzogiorno sono necessarie, ma la storia ci dimostra che lo è anche destinarle a nuove priorità, con modalità di erogazione più trasparenti e partecipate, in un’indispensabile logica che mette al centro le responsabilità della società civile meridionale.
Quali sono queste priorità?
Chiediamoci, seriamente, se ciò che rende così lontani il Nord e il Sud del Paese sia solo una questione economica, di reddito, o se riguardi il livello di coesione sociale, di senso comunitario, di cultura della legalità diffusa e, più precisamente, di qualità della convivenza civile. E’ ovvio che le differenze in termini di ricchezza disponibile incidono sulle condizioni di vita, ma questa valutazione non è sufficiente. Io credo che non possa esserci nessuna reale e credibile opportunità di sviluppo per il Mezzogiorno se non cambiamo punto di vista, iniziando ad investire su quella che è la vera priorità per il Sud e per la sua crescita: la coesione sociale. La questione meridionale è diventata, se non è sempre stata, una questione sociale: di nuove povertà, di diversi bisogni, di frammentazione del tessuto civile. Sono le differenti condizioni di vita e il diverso grado di opportunità offerto dai territori ad allontanare davvero il Sud dal Nord. Prenderne atto e intraprendere una strada che vada in questa direzione è indispensabile e rappresenta un gesto di vera responsabilità che deve coinvolgere, in primis, i meridionali.
Puntare sul sociale è il vero investimento da realizzare se si vuole garantire lo sviluppo duraturo di un territorio. Solitamente nessuno è palesemente ostile o contrario alle politiche sociali, ma nei fatti notiamo che queste vengono praticate esclusivamente in condizioni di economia fiorente o in una fase di crescita. Di contro, assistiamo invece a disinvestimenti o tagli. Ma uno sviluppo credibile e duraturo non può che partire da qui.
I livelli di dispersione e abbandono scolastici; la scarsa capacità di “attrarre” menti brillanti, mentre assistiamo al sempre più diffuso fenomeno della fuga dei “cervelli”; lo stato di abbandono e l’incuria in cui versano i beni comuni, l’incapacità di valorizzare il nostro patrimonio, sono solo alcuni esempi di una cultura politica miope che, oltre a provocare effetti diretti all’economia (basti pensare ai costi per gestire le “emergenze” o contenere i danni), privano il Sud e il Paese di un enorme potenziale di sviluppo.
Voglio riportare alcuni dati. Partiamo dai giovani.
Secondo i dati del MIUR negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi. Si tratta del 31,9 per cento dei circa 9 milioni di studenti che hanno iniziato a frequentare le scuole superiori in questo arco temporale. Anche in questo caso con nette distinzioni tra Centro – Nord e Sud del Paese. Si passa da regioni più virtuose come l’Umbria e le Marche dove circa l’80 per cento degli studenti termina il quinquennio, a regioni come la Sicilia, la Sardegna e la Campania dove il dato arriva a poco più del 60 per cento. Quello della dispersione scolastica è un problema che passa inosservato, ma che porta con sé costi sociali, politici ed economici molto alti. Lo sa bene l’Europa che ha inserito tra i cinque obiettivi principali della Strategia Europa 2020 – il pacchetto decennale per la crescita e il lavoro lanciato dall’Unione europea nel 2010 – quello di ridurre al 10 per cento la quota di early school leavers, ossia dei giovani europei tra i 18 e i 24 anni che smettono di studiare dopo la licenza media.
La situazione non è migliore se prendiamo in considerazione la disponibilità di servizi all’infanzia.
In Calabria la copertura di asili nido è poco più del 2%, mentre in Emilia Romagna la percentuale di bambini presi in carico dai servizi per l’infanzia è del 27,3%. Un enorme scarto di opportunità che vale anche per tante altre aree del Sud rispetto a quelle del Centro-Nord. Il Consiglio Europeo di Lisbona ha individuato per il 2020 l’obiettivo del 33% di copertura relativa al servizio asili nido in ciascun Stato membro. Un divario di cittadinanza, potremmo dire, che parte dalla tenera età e che prosegue, crescendo e intrecciandosi con altre criticità, fino alla maturità ed oltre.
E cosa fanno i nostri giovani più brillanti?
Il fenomeno della fuga dei “cervelli” riguarda tutto il Paese, ma penalizza soprattutto il Sud. Sono circa 700mila i laureati che in 10 anni, dal 2001 al 2011, hanno lasciato l’Italia. Alla migrazione verso l’estero bisogna aggiungere quella interna al Paese. Nello stesso periodo 172 mila laureati si sono trasferiti dal Sud al Nord Italia, registrando un trend crescente: se nel 2001 i laureati meridionali che emigravano erano il 10,7%, nel 2011 la percentuale è più che raddoppiata, raggiungendo il 25%.
Sono partito da questi esempi per dire che è qui che dobbiamo intervenire se vogliamo creare sviluppo. E’ questo il divario che va recuperato. La centralità del capitale sociale, del buon funzionamento delle istituzioni, della giustizia sociale, della cura dei beni comuni, degli investimenti nell’istruzione, nella ricerca e nei servizi di welfare come leva imprescindibile per lo sviluppo è una realtà che, ormai, le teorie dello sviluppo hanno abbracciato. E’ necessario passare alla pratica.
Come? Nel territorio non restando immobili ad attendere un aiuto esterno, ma rimboccandosi le maniche con responsabilità ed impegno. A livello centrale avviando politiche di sviluppo inclusive, che sappiano indirizzare e creare condizioni favorevoli alla nascita di iniziative autonome di sviluppo locale, facendo delle scelte basate su una scala di priorità, ma anche intervenendo in ambito europeo. Su questo, ad esempio, sarebbe opportuno ridefinire meglio gli obiettivi “imposti” da Bruxelles alle regioni convergenza, proponendo un numero limitato di azioni strategiche ed obiettivi a cui tendere per quel che concerne infrastrutture materiali e immateriali.
Un metro di misura, non scientifico, del progetto di sviluppo del Mezzogiorno riguarda proprio queste due tipologie di infrastrutture. Ho già accennato a quella di natura sociale. Per quanto riguarda l’altra, quella materiale, basti l’esempio dei collegamenti tra i territori del Sud: grandi città come Napoli, Palermo, Bari, che non sono collegate tra loro (da Bari a Palermo è obbligatorio prendere un volo con scalo a Roma!). La stessa cosa vale per i porti, sistemi isolati tra loro, e per i collegamenti tra questi e le altre infrastrutture, stradali e produttive. Una situazione che, ovviamente, allontana il nostro Sud anche dal resto del Mediterraneo e, conseguentemente, da nuove opportunità di crescita e sviluppo.
Occorre creare sviluppo puntando sulle risorse e sulle potenzialità di cui il nostro Mezzogiorno è ricco (in maniera assolutamente riduttiva, pensiamo ad esempio al patrimonio storico artistico, alle tradizioni culturali), rendendo la società civile non possibile destinataria del cambiamento, ma attiva protagonista. Scrisse Guido Dorso nel 1945 “Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, tutto sarà inutile”. Niente di più vero, ancora oggi. E’ in quest’ottica che la coesione sociale assume il suo carattere di imprescindibilità. Il sostegno esterno resta ovviamente fondamentale, ma con un ruolo diverso, di accompagnamento, di partenariato, anche finanziario, e di condivisione. E’ un percorso lento e difficile, spesso incompatibile con i tempi della politica, ma indispensabile.
Occorre poi riprendere a fare Politica (con la P maiuscola), premiando l’esercizio delle responsabilità, piuttosto che le dichiarazioni di fedeltà; e sviluppando una permanente cultura della rete, del confronto, del dibattito, dell’ascolto. Insomma bisognerebbe ritornare ad investire sulle classi dirigenti.
In questa sfida il terzo settore dovrebbe giocare un ruolo importante, perché, al di là degli eclatanti fatti di cronaca che hanno riempito negli ultimi tempi le pagine dei giornali, sa esprimere una classe dirigente tra le migliori al Sud. Il mondo del volontariato, dell’associazionismo, della cooperazione sociale e in generale del non profit sono portatori sani di esperienze e buone pratiche che, nei fatti, sono pezzi di politica vera nei territori. E non mi riferisco solo agli aspetti solidaristici e inclusivi, pur importanti, ma anche alle dinamiche di rete che incrementano percorsi di economia civile e lo sviluppo di un welfare di comunità, ossia di una forma di sussidiarietà di tipo territoriale che vede il mondo del non profit in prima linea in un’attività che si affianca, ma che non può sostituire, l’intervento pubblico.
Naturalmente vi sono anche conseguenti comportamenti e priorità nelle politiche da costruire e anche da rivendicare. Mettiamo al primo posto la scuola, a partire da quella dell’obbligo; poi i servizi sociali; poi il buon funzionamento della giustizia e delle strutture periferiche della Pubblica Amministrazione; in fondo il sostegno alle attività produttive, ma con interventi puntuali e selettivi. Soldi concessi in modo indiscriminato hanno fatto già troppi danni, ispessendo clientele, rendite parassitarie e, tra i giovani, cultura della dipendenza.
Ho citato l’importanza del ruolo del mondo non profit. Voglio concludere raccontando brevemente alcune esperienze sostenute nelle regioni meridionali dalla Fondazione CON IL SUD, che presiedo dal 2009, e che dimostrano come partendo dalle comunità, dalla responsabilità della società civile, dalla valorizzazione delle potenzialità dei territori e dalla coesione sociale è possibile creare sviluppo, anche economico. Storie che dimostrano, insomma, che questa è la strada da percorrere per farcela. Non a caso la Fondazione li definisce progetti “esemplari”, proprio perché li riconosce come modelli da seguire, replicabili per realizzare uno sviluppo possibile e autosostenibile.
Parto da uno degli esempi forse più conosciuti, le Catacombe di San Gennaro di Napoli nel quartiere Sanità che, grazie al’impegno della comunità e soprattutto dei giovani del Rione, sono state riaperte al pubblico dopo ben 41 anni di chiusura. Si è partiti da un patrimonio – artistico, storico, culturale – di straordinaria bellezza, restituendolo non solo a chi vi abita intorno, ma potenzialmente a chiunque. Tutto questo contaminando positivamente il paesaggio e la comunità locale e creando dopo due anni un indotto che ha prodotto lavoro per i giovani del quartiere (sono nate tre imprese sociali gestite direttamente dai ragazzi del Rione), con un forte incremento di visitatori, soprattutto stranieri. Coesione sociale, impegno, responsabilità portano sviluppo anche economico.
Un altro esempio straordinario che posso fare è quello della Fondazione di Comunità di Messina (una delle 5 fondazioni di comunità nate nel Mezzogiorno con il sostegno della Fondazione CON IL SUD; le altre sono a Salerno, nella Val di Noto e 2 a Napoli).
Nella provincia di Messina, è avvenuto un vero “miracolo civile”: una serie di attori locali della ricerca scientifica, del non profit e del mercato sono riusciti ad immaginare e sperimentare “insieme” un modo nuovo di fare economia, partendo dal sociale, valorizzando le relazioni umane, la persona, i beni collettivi. La Fondazione di Comunità di Messina persegue la propria missione non solo attraverso l’attività erogativa, ma anche attraverso una visione innovativa e socialmente responsabile degli investimenti. Circa il 50% delle risorse sono investite nella produzione di energia da fonti rinnovabili, attraverso la realizzazione di impianti fotovoltaici diffusi (su terreni confiscati alla mafia, edifici di pubblica utilità o residenziali).
Il rendimento generato dal conto energia è reinvestito dalla Fondazione di Comunità in un programma di interventi di empowerment, cioè per il rafforzamento, l’indipendenza, la piena libertà di un’area e di chi la abita. Ad esempio, attraverso il programma “Luci e libertà”, la Fondazione ha promosso il reinserimento sociale di una sessantina di ex detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) che, destinatari di un budget individuale assegnato dallo Stato italiano, hanno scelto di farlo confluire nel fondo della Fondazione di Comunità di Messina, di cui sono soci. Con la medesima cifra sostenuta dallo Stato Italiano per il ricovero in comunità terapeutica di un ex internato (70 mila euro l’anno), il programma “Luce e libertà” della Fondazione di Comunità di Messina sostiene il suo reinserimento sociale per 20 anni (per un “costo” di 3.500 euro l’anno). E, nel tempo, la persona sarà messa nelle condizioni di sostenersi da sé.
La Fondazione di Comunità di Messina è stata individuata dall’Ocse, dall’Unops e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come uno dei più interessanti casi mondiali di sperimentazione di modelli di welfare e sviluppo locale.
Potrei fare tantissimi altri esempi, come le esperienze di riutilizzo in chiave sociale dei beni confiscati alle mafie che ritornano alla comunità come luoghi di aggregazione, occasioni di lavoro, servizi, strumenti per valorizzare il turismo e l’enogastronomia locale.
Sono tutte storie che dimostrano come sia possibile e praticabile avviare al Sud percorsi di welfare comunitario, cioè interventi che nascono da esigenze concrete del territorio e realizzati in rete dal territorio stesso. Da sottolineare come, in questo caso, il pubblico giochi una parte importante ma non decisiva. E’ una considerazione che deve fare riflettere. Nei progetti sostenuti dalla Fondazione CON IL SUD non è mai richiesta la presenza obbligatoria di un ente locale nella partnership. Questo a mio avviso dà forza all’idea del progetto perché sprona alla partecipazione e all’efficienza il pubblico, ma non delega esclusività negli interventi e nelle scelte che interessano la collettività.
Allora, ripartiamo da qui, dalle nostre responsabilità, dal nostro amore per il territorio. Così potremmo, insieme costruire veramente un futuro migliore per il nostro Mezzogiorno.
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