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Se i politici decidono le loro strategie in campagna elettorale sulla base dei consigli dei guru del marketing con l’obiettivo di massimizzare i propri consensi allora le considerazioni più tristi e preoccupanti che scaturiscono da questa campagna elettorale non riguardano loro ma gli italiani.

Difficile infatti pensare che i candidati non conoscano la situazione del paese, più facile immaginare che la loro furbizia li porti a scegliere quegli argomenti e punti di programma maggiormente in grado di aumentare i propri consensi. Dunque il problema non sono loro ma gli elettori sui quali evidentemente queste strategie fanno presa. Pertanto certe spettacolarizzazioni e cadute di tono del dibattito evidenziano che, se i politici non hanno sbagliato i loro calcoli, gli elettori guardano più al folclore che alla sostanza.

In realtà i candidati sono combattuti tra il realismo che ogni tanto affiora (la situazione è difficile e ci vorranno sacrifici) e le promesse più avventate (aspettiamo con quasi certezza un escalation nell’ ultimo giorno della campagna, i colpi ad effetto sono riservati per il finale). I programmi dei due blocchi sono abbastanza dettagliati. Più vago quello della PDL con le sue 7 missioni, più dettagliato quello del PD con le sue 12 azioni (le stesse definizioni scelte di “missione” ed “azione” sembrano coerenti con questa impressione). E comunque i programmi, al di là di molti spunti e proposte interessanti, sembrano dei libri dei sogni che mescolano slogan e traguardi ideali (le scuole devono diventare gli edifici più belli del quartiere!) ad iniziative concrete e realizzabili. In essi c’è comunque un vizio che riguarda la copertura complessiva delle iniziative dal punto di vista del bilancio pubblico.

Più dei programmi conta il dna delle due forze politiche. Il centro sinistra è in genere riuscito a migliorare la situazione delle finanze pubbliche e a promuovere una crescita moderata. Il centro destra ha dimostrato meno disciplina sui conti pubblici e la capacità di incidere sulla crescita è stata nulla (anche se nel suo mandato la situazione economica internazionale era forse peggiore).

Prendendo ad esempio una questione presente in entrambi i programmi, attraverso benecomune.net abbiamo sottolineato più volte come la lotta al debito pubblico abbia un’importanza fondamentale non solo per le generazioni future ma anche per quelle correnti. Con un rapporto debito PIL superiore al 100 per cento abbiamo sulle spalle circa 27.000 euro di debiti a testa (tra il 15 e il 20 percento della ricchezza pro capite, prima casa inclusa, secondo i dati di Banca d’Italia) e una quota molto maggiore delle entrate fiscali, rispetto a quanto avviene negli altri paesi OCSE, deve essere destinata a pagare il debito. Per cui dire che in Italia, la qualità dei servizi pubblici non è all’altezza delle tasse che paghiamo non può essere un’accusa ma è un’ovvietà contabile e un vincolo che non possiamo allentare se il debito non diminuisce. Il macigno del debito pubblico non è ineliminabile. Il Belgio (paese che non brilla per semplificazione della vita politica e decisionismo) è passato nel giro di alcuni anni da oltre il 120 al 60 percento. La strada è semplicissima, con un tasso di evasione di gran lunga fuori linea rispetto alla media UE pagare meno e pagare tutti è la via maestra. Inoltre qualcosa si può ricavare dalle politiche di gestione dell’attivo (a patto che non siano troppo creative..). Forze politiche responsabili avrebbero concluso un accordo bipartisan sulla lotta all’evasione prima delle elezioni. Invece i protagonisti della lotta all’evasione degli ultimi anni sono stati messi da parte perché “electorally incorrect” mentre si parla di “rimettere i soldi nelle tasche degli italiani”.

Il dramma della politica italiana è che i potenziali premier non vogliono scontentare nessuno soprattutto in campagna elettorale ma, anche dopo, non hanno la forza politica di prendere decisioni, anche impopolari, a breve contando sui loro effetti positivi a lungo periodo. Purtroppo con questo sistema elettorale il lungo periodo nella politica italiana non esiste. Parafrasando Keynes che diceva che nel lungo periodo siamo tutti morti potremmo dire che in Italia nel lungo periodo il governo è già caduto.

Più i tempi di comunicazione sono ridotti più il messaggio s’impoverisce. Gli spot radiofonici sono talvolta comici e, più che libri dei sogni, sembrano pensierini degli alunni delle elementari.

I candidati ad ogni livello di rappresentanza sono purtroppo vittime di una terribile esternalità negativa: più i concorrenti spendono imbrattando i muri della città, più devono spendere per non rendere il gap di visibilità troppo elevato e per avere almeno per qualche minuto la loro faccia sui cartelloni. Dunque la spesa complessiva è molto più alta ma le posizioni relative cambiano poco e quindi sostanzialmente si spende senza motivo.

Sin da ora, per via della complessità dei meccanismi dei premi di maggioranza regionali al senato, sembra che il risultato delle urne non sarà in grado di dare abbastanza forza al vincitore (se vincitore ci sarà) e che i vari poteri d’interdizione dei Ghini di Tacco di turno (soprattutto da una parte), nonostante le semplificazioni, continueranno a sussistere.

Purtroppo, maggioranze risicate, vittime di uomini-partito e dei loro capricci (alcuni sono stati coraggiosamente lasciati a casa ma altri resistono inquietanti all’orizzonte), non sono in grado di fare neanche le cose normali.

Se osservatori stranieri da fuori rilevano che i programmi elettorali sono almeno parzialmente sovrapponibili, e se, come si teme, ci potrebbe essere un sostanziale pareggio c’è forse spazio per un colpo di reni: un governo bipartisan delle due principali forze politiche con l’obiettivo di realizzare pochi punti condivisi. La riforma elettorale che renda più facile la formazione di maggioranze stabili e in grado di durare per un’intera legislatura. La prosecuzione della lotta all’evasione con i metodi degli ultimi anni e l’utilizzo degli eventuali tesoretti per ridurre la pressione fiscale complessiva e per iniziative a favore dei più deboli. Una seria politica delle infrastrutture, un impegno deciso verso la sostenibilità ambientale in direzioni molteplici (raccolta differenziata, fonti rinnovabili, ecc.) che ci porti almeno al livello delle migliori pratiche europee. La liberalizzazione nei settori dei servizi e delle professioni come strumento di lotta all’inflazione e di aumento della competitività delle nostre imprese. Una politica per gli immigrati che superi l’ipocrisia che finge che le richieste di regolarizzazione, che eccedono di gran lunga i posti disponibili, vengono da persone fuori dal paese e non da coloro che già da tempo formano una parte del tessuto fondamentale di questo paese (badanti, domestiche, operai, piccoli imprenditori) e potrebbero dare il loro dal punto di vista fiscale e contributivo. Infine, politiche per il terzo settore che, oltre a valorizzarne la funzione sociale, creino circoli virtuosi tra cittadini/contribuenti e soggetti dell’associazionismo, come avvenuto attraverso la misura del cinque per mille.

La soluzione dunque ci sarebbe e chissà se il risultato delle urne (sembra quasi una legge in Italia ed è già accaduto spesso in passato che le distanze emerse negli ultimi sondaggi si riducono molto al momento del voto) e il desiderio dei candidati premier di non subire le angherie delle minoranze- “ago della bilancia” non ci porti rapidamente in tale direzione.

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