L’identità dei partiti – scriveva Weber – si costruisce di norma intorno a tre obiettivi: la ricerca di «una posizione di potenza» per il capo e il suo apparato, l’interesse di ceto o di classe e la condivisione di una «intuizione del mondo». Lasciamo senz’altro il primo ai luoghi comuni dell’antipolitica. Walter Veltroni, dichiarando superati gli altri due, sollecita invece una riflessione il cui significato va al di là delle polemiche elettorali.

Un partito che guardi alla società del 2008 e non a quella del 1953 “deve” poter accogliere l’imprenditore insieme all’operaio. Questa scelta non è in realtà una novità: la stessa Democrazia cristiana costruì le sue fortune su una visione della politica come ricerca del bene che può essere di tutti e dunque pratica di convergenze possibili piuttosto che di lotta. Più impegnativa è la risposta ai cattolici che considerano con grande disagio la prospettiva di correre sotto la stessa bandiera con i radicali e altri candidati come Umberto Veronesi. Questo disagio nasce dall’idea che la scelta di un partito non possa essere sganciata dalla condivisione di una dimensione di valore profonda, capace per questo di consolidare un’appartenenza e alimentare passioni. Il segretario del Pd considera “vecchia” anche questa prospettiva. Culture diverse si misurano con l’impegno di una sintesi e ciò dovrebbe valere anche quando quelle culture da tempo si comprendono e si propongono come alternative. Il punto è sottile e tuttavia decisivo. Non si dice semplicemente che questa è la sfida della politica in una società complessa e frammentata, ma che ciò può avvenire “dentro” un partito. Eppure all’esistenza di quest’ultimo appare indispensabile un’identità, che è sua e non di altri e che solo in questo gioco di interno ed esterno, sul presupposto di una reciproca legittimazione, contribuisce a far nascere, per dirla con Gioberti, «la nazione dalle fazioni». La faticosa gestazione del Manifesto dei valori ha già dimostrato come un partito con troppe “anime” sia costretto ad un comun denominatore basso, il cui paradigma è la fedeltà alla Costituzione, cioè alla carta della cittadinanza che unisce e non di scelte che comunque, in quanto appunto di partito, dovrebbero selezionare e distinguere. L’urgenza della sfida elettorale evidenzia ora un’altra caratteristica di questo coraggioso tentativo di rinnovamento della politica italiana.
Un partito troppo aperto rischia di non riuscire a “chiudere” la sua identità né sui programmi né sui valori. Non sui programmi, perché la competizione al centro fra le forze che vogliono essere di governo e non di nicchia gioca da fattore di omologazione. Nessuno copia, ma tutti, almeno un po’, si assomigliano. Non sui valori, che vengono neutralizzati, ma solo fino a quando non si tornerà a discutere nelle aule parlamentari di provvedimenti legislativi sulle cosiddette materie “eticamente sensibili”. Gli stessi protagonisti, ormai, si dichiarano anche stanchi del clima di volgarità e degli effetti di disgregazione prodotti dal bipolarismo dei “buoni” contro i “cattivi”. Il problema della politica non si risolve arrogandosi l’esclusiva dell’onestà. Ecco perché la via quasi obbligata, per chi non voglia esplorare ipotesi alternative e non solo più “leggere” a quella del partito come soggetto principale della vita politica, sembra essere quella di una appartenenza raccolta intorno alla leadership. È proprio per non continuare ad impantanarsi nella paralisi della decisione che essa ha bisogno di inglobare e non semplicemente coalizzare le differenze, coprendo prima di tutto con la sua investitura dal basso (le primarie solo per il premier) le fratture di un’identità che è la somma di fedeltà materiali e ideali multiple, sovrapposte e talvolta francamente incompatibili. Da questo punto di vista il Pd di Veltroni è davvero diverso dall’Ulivo di Prodi e sfida a carte scoperte il “carisma” di Silvio Berlusconi. Con tutte le conseguenze che ne derivano. In gioco ci sono la natura e lo stile della politica. Senza dimenticare che c’è un limite oltre il quale diventa veramente impossibile sentirsi e quindi spendersi “dalla stessa parte”.

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