Fiumi di inchiostro sono stati versati per definire questa semplice parola: lavoro.
Durante il ‘900 ognuno l’ha declinata in base ad una costruzione teorica preesistente, scoprendo indubbiamente verità che erano presenti e verificabili nella pratica quotidiana.
Chi può negare che il lavoro sia anche conflittuale rispetto al capitale? Chi altrettanto potrebbe negare che nel lavoro si realizza la completezza dell’uomo? E chi e come, tramite il lavoro, realizza la sua dignità di persona?
Queste domande retoriche sono tutte vere e riscontrabili sperimentalmente. Tuttavia esse erano particolarmente vere nel secolo scorso, quando l’elettromeccanica consentiva a tutti di comprendere razionalmente la macchina e dunque il processo produttivo a cui partecipava.
Sono vere anche oggi, ma il loro grado di veridicità non è più esaustivo del problema. Per spiegarmi meglio sarebbe come descrivere il razzo che va sulla Luna di colore bianco; certo che è bianco, ma esso non è l’elemento distintivo che lo caratterizza.
Innanzitutto i “blu collar” sono passati dal 50 al 25% dell’intera forza lavoro, ma più ancora la macchina e quindi il processo di lavorazione è divenuto irrazionale, cioè non più comprensibile a causa dell’introduzione massiccia dell’informatica: l’addetto conosce la funzione ma non il funzionamento. Ognuno di noi sa come fare a telefonare da un cellulare ma ne ignora completamente il meccanismo che permette di parlare e ascoltare. Anche nel secolo scorso c’erano persone che non sapevano come funzionava un telefono fisso, ma potevano avere le conoscenze per apprenderlo rapidamente: oggi questo non è più possibile a meno che non si sia esperti del settore e lo si può essere solo di quello, non di altri, perché il funzionamento di qualsiasi macchina richiede una specializzazione molto approfondita ed è impossibile estenderla a tutto.
Dunque la produzione è irrazionale in quanto “non comprensibile”.
Un secondo fattore è la perdita della centralità della produzione a favore della vendita. Le crisi che si sono succedute dagli anni ’70 in poi, compresa quella gravissima attuale, sono crisi di sovrapproduzione: si è prodotto troppo rispetto a quanto si poteva comprare, e la globalizzazione ha abbassato i prezzi di molti prodotti per cui ha buttato fuori mercato una fascia consistente di aziende che si illudevano di continuare a produrre come dieci o venti anni prima (è la storia che si ripete su scala continentale dell’Ansaldo di Genova nel primo dopoguerra quando aveva un gruppo dirigente vecchio di età e di idee e incapace di rinnovarsi).
Dunque occorre trovare altri parametri per descrivere il concetto di lavoro tenuto conto dei mutamenti strutturali che sono intervenuti.
Se i nostri occhiali non riescono più a leggere, e dunque a comprendere appieno, il concetto stesso di lavoro, possiamo provare a rifarci ad una definizione (apparentemente) neutra, quella che ne dà la fisica classica. Il lavoro viene definito come il prodotto tra “Forza” e “Spostamento” (f s = l).
Se applico una forza ad un grave, ma non lo sposto, ho faticato ma non ho prodotto lavoro perché lo spostamento è stato zero. Dunque, un primo risultato, la diversificazione tra fatica e lavoro; non è detto che in presenza della prima corrisponda la seconda.
Tuttavia è vero anche il contrario: lo spostamento senza la forza non produce alcun lavoro, perché zero moltiplicato per un qualunque numero fa sempre zero. In sostanza devono comparire assieme due elementi, forza e spostamento, perché si possa dire che ci sia stato lavoro. In questa ottica il lavoro assume il significato di accrescimento di valore. Ho detto valore, e non a caso: i soldi fatti con la speculazione di Borsa non sono frutto di lavoro perché non si è adoperato né fatica né ingegno e quindi non si è dato valore ad alcunché, attraverso il lavoro; c’è lo spostamento ma manca la forza.
Applichiamo ora il concetto fisico ad una qualunque azienda. Se, anno dopo anno, essa è costantemente in perdita, vorrà dire che gli addetti non hanno prodotto lavoro perché non hanno aggiunto valore alla loro fatica, fisica o intellettuale che sia. Così altrettanto chi specula, potrà forse arricchirsi, ma certo non ha prodotto alcun lavoro perché il valore intrinseco delle azioni possedute non varia da un fixing all’altro, ma dalla capacità dei dipendenti di organizzare la produzione in modo più o meno efficiente.
In questa semplice formula fisica stanno anche le tre domande retoriche che ci ponevamo all’inizio, perché il conflitto all’interno della fabbrica deve essere regolato in modo da riequilibrare i rapporti di tutti gli addetti, perché attraverso il lavoro l’uomo continua la “creazione” divina, ed infine è con il lavoro che egli riacquista la dignità di persona umana.
Tutto ciò è possibile se l’operosità (la forma astratta del lavoro) si trasforma in accresciuto valore da destinare alla comunità, al contrario è condannata al fallimento se rimane solo fatica che si trasforma in moderno abbrutimento o all’arricchimento personale.