In questi ultimi giorni i mass media hanno dato spazio, tanto largamente quanto piuttosto superficialmente, alla questione dell’«emergenza» rifiuti in Campania.

Nulla di nuovo in verità, come pure tutti i commentatori sottolineano: un’emergenza che dura da anni assomiglia piuttosto ad uno stato d’intossicazione cronica che ad una sbornia temporanea i cui sgradevoli effetti si diradano in poco tempo.

E, quanto all’intossicazione, non si tratta neppure tanto di una metafora: la realtà delle strade campane è un deprimente scenario di rifiuti che assediano i centri urbani, di roghi accesi per uno smaltimento operato “in difesa legittima”, con il conseguente sprigionamento di diossina e chissà quali altri veleni. In più, al problema strutturale dello smaltimento si aggiunge ora (o, per meglio dire, di nuovo) un problema congiunturale di ordine pubblico: cittadini qualunque formano barriere umane e s’oppongono al conferimento di rifiuti in discariche chiuse da tempo; e le autorità annunciano la “linea dura”, cioè l’uso della forza. Ultima, estrema risorsa per far operare un palliativo temporaneo, non risolutivo: quello del parziale conferimento in una discarica (peraltro in disuso da tempo) della massa indifferenziata di prodotti del consumo umano.

   Decisione necessaria, chissà, ma che ulteriormente disorienta e deprime. Non vogliamo discutere qui se il ricorso alla forza sia legittimo, necessario od anche solo opportuno nelle presenti circostanze. Ma v’è da chiedersi comunque: in nome di quale legge è compiuto? di quale regola, cioè, tanto chiara da mandare un messaggio univoco sui comportamenti da tenere, e poi sul confine tra lecito e illecito? Quale è il messaggio ch’è stato dato ai cittadini, che essi abbiano disobbedito e siano per questo rimproverabili?

   In questo caso, diciamo almeno che, quanto alle regole esistenti, il messaggio dato è stato contraddittorio: lo scopo della normativa in materia di gestione dei rifiuti sarebbe, in linea di principio, quello di promuovere l’adozione di politiche vòlte a prevenire la formazione del rifiuto, a ridurne la produzione, privilegiando – come in altri Paesi europei accade da anni – riciclo, reimpiego, riutilizzo, o comunque la destinazione del rifiuto stesso alla produzione di energia. Ciò significa che il conferimento in discarica è l’ultimissima spiaggia, l’azione che può essere adottata soltanto laddove non sia stato possibile perseguire l’obiettivo di un rapporto “virtuoso” tra l’uomo che consuma e il prodotto di quel consumo. Se questo è il senso della normativa, appare evidente che la pretesa di conferire nuovamente tutto in una discarica, sotto la pressione della necessità – una discarica che, comunque in coerenza con la necessità di perseguire quegli scopi normativi, era stata chiusa – finisce con il mandare un messaggio che non può non disorientare il cittadino. Lo incoraggia alla resistenza contro l’incoerenza.

   E, in tema di coerenza, diciamo che quella dei comportamenti dell’autorità pubblica non è stata esemplare: ce lo ricorda ad esempio Sergio Rizzo (Corriere della Sera, 3.1.2008), che menziona i costi di scelte sciagurate o anche soltanto errate, che ne hanno indotto, in un circolo vizioso, altre ulteriormente costose (quali il trasporto di rifiuti all’estero, perché vengano smaltiti) – una catena di sant’antonio di cui non si vede la fine. E ancora, ci vengono ricordate le parole “nomadi”, per dirla con un noto intellettuale, di politici e pubblici amministratori invece ben “stanziali” sui propri assetti di potere: parole che dicono che l’emergenza è finita, o che finirà, o invece che non c’è mai stata; ecco, questo è l’esempio dato ai cittadini, grami raccoglitori dei rimasugli di promesse macerate, e magari prossimamente anche di qualche manganellata…

   Sono poi da rimarcare alcuni aspetti di un problema culturale che non è affatto teorico e di lungo periodo, ma ha conseguenze pratiche dirette, percepibili nell’immediato. Primo: è abitudine, anzi vizio italico quello di gridare alla necessità di nuove norme. Le norme ci sono, sono anzi già troppe e confuse (come sanno tutti gli addetti ai lavori, ma è ormai moneta corrente nella consapevolezza civica); volerne altre è frutto di atteggiamento ipocrita. Quando nel 2006 il legislatore ha introdotto (maldestramente) il c.d. testo unico ambientale, aveva la pretesa, fra tante altre, di ridefinire l’organizzazione del servizio di gestione dei rifiuti per “ambiti territoriali ottimali” individuati dalle Regioni; di ridefinire modalità di affidamento del servizio affidabili, in particolare mediante espletamento di gare disciplinate dalla normativa comunitaria. Vengono i brividi, guardando alla Campania di questi giorni (ma non è solo un problema campano, e non è solo di questi giorni, come si è accennato: almeno dal 2000 la metà dei reati in materia ambientale si colloca tra Campania Puglia Calabria e Sicilia).

   Secondo: la gestione dei rifiuti, proprio nella logica “preventiva” per la quale si vuole incidere innanzi tutto sulla formazione del rifiuto, non è affare dei soli industriali: non stiamo parlando qui dei rifiuti di attività industriali e produttive, ma di quelli “urbani”, ed anche specificamente “domestici” (categoria definita ora nell’art. 184 del testo unico ambientale). Proprio per questa tipologia di rifiuti, è necessaria – qui ed ora, immediatamente – una “virata” culturale: inculcare nelle persone l’idea ch’esse sono direttamente e personalmente responsabili di questo particolare aspetto della “tutela ambientale”.

   Sono responsabili perché l’ordinamento, nell’interesse collettivo (e quindi di tutti e di ciascuno), chiede sia di realizzare condotte virtuose, sia di non realizzare condotte dannose. Chiede di realizzare le prime, e quindi fra l’altro – ricordando ad esempio i suggerimenti di un esperto come Guido Viale – di riciclare e di recuperare, di ridurre gli imballaggi, preferire strumenti multiuso. Esempio banale: per la spesa, borse di tela anziché di plastica (un uso molto tedesco, storcerà il naso l’esteta italico, ma è solo questione di abitudine dell’occhio e, prima ancora, della mente). L’ordinamento vieta poi di realizzare condotte dannose, e lo vieta anche all’uomo della strada: fra queste, innanzi tutto, c’è il divieto di «abbandonare» o «depositare» rifiuti, di «immetterli nelle acque superficiali o sotterranee». Si noti che questo è un divieto che riguarda anche i comportamenti di tutti i giorni, l’abbandono o il deposito di rifiuti non ingombranti e non pericolosi: si pretende dunque un’attenzione per la cosa pubblica, anche nei piccoli comportamenti di tutti i giorni, perché – non suoni irriverente la citazione (Lc. 16,10) – “chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto”. Questo vale anche per tutti quei gesti incivili cui giornalmente si assiste (a partire dalle cartacce gettate per terra, dallo svuotamento del portacenere in strada, eccetera), che non sono gravi in sé, ma per la mancanza di senso civico di cui sono indiscutibile spia. E inoltre: bisogna imparare a differenziare. Deve diventare pratica quotidiana come radersi o farsi il caffè: il vetro non si getta con la carta, la plastica non con i residui alimentari, e così via; dev’essere percepito quasi come un bisogno, anche se non fosse oggetto di un obbligo.

   In questa prospettiva, pretese e divieti e sanzioni non sono incomprensibili, fini a se stesse, o incoerenti: sono uno strumento necessario del perseguimento dell’interesse collettivo, insomma del bene comune; ed è qui, dunque, che deve penetrare ed incidere la logica del “bene comune”. Ci sono delle regole di condotta, che devono essere rispettate, da tutti e da ciascuno. Qui non si può delegare ad altri la responsabilità, va assunta in prima persona; non vale il meccanismo dello “scaricabarile”: anche i “privati cittadini” sono dunque chiamati a giocare un ruolo di fedeltà quotidiana al bene comune.

   Inoltre, e per la stessa ragione per la quale tutti sono obbligati, tutti hanno anche interesse a che le condotte disobbedienti, in questo, siano punite (per chi non sia titolare d’impresa, d’altronde, si tratterebbe di una semplice sanzione amministrativa pecuniaria, che peraltro potrebbe anche essere d’importo elevato). E, per essere punite, devono essere accertate: si apre il problema dell’applicazione delle regole. Gigantesco: «chi pon mano ad esse», si chiedeva il Poeta: chi cioè sorveglia l’applicazione? Qui la palla è alle pubbliche autorità; esse sono, per dir così, i sacerdoti, i ministri di quella fedeltà che l’ordinamento pretende da tutti e da ciascuno. Ma, proprio per questo, anch’essi devono essere ministri fedeli; rigorosi bensì, ma che dànno l’esempio.

   Dare l’esempio significa, anche in una situazione di estrema urgenza, non mettere mano (solo) al manganello ma (anche) alla ragione: inventarsi magari nuovi provvedimenti, imporre comportamenti, stabilire divieti, ma razionali ed efficaci allo scopo. Se si deve vietare ulteriormente, si vieti la vendita in imballaggi, come è stato suggerito (costituiscono percentuali importanti per peso e volume del rifiuto), si imponga – anche con forza – la raccolta differenziata: divieti e sanzioni devono essere comprensibili e ragionevoli, o saranno (e, soprattutto, saranno percepiti come) vessazioni.

   Infine. Manca l’educazione alle regole; nel mezzo di tante, forse vane “pubblicità progresso”, nessuna – salvo errore (e chi scrive spera di errare) – che spieghi adeguatamente come si ricicla e come si differenzia (non tutte le pratiche sono autoevidenti); e soprattutto, insufficiente (o nessuna?) formazione nelle scuole.

   Sono investimenti da fare: costano lacrime e sangue, ma certo diverse da quelle versate nel mantenersi trascinandosi a fatica, per anni, nell’emergenza; investendo sul presente per il futuro si potrà anche piangere, ma, forse, sono lacrime capaci di trasformarsi in perle.

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