Questa visione teorica si è trasformata in pratica nell’ultimo quarto di secolo. Le riforme dell’organizzazione d’impresa inaugurate dagli anni ’80 nel capitalismo americano e poi diffusesi in tutto l’occidente, andavano in questa direzione: più incentivi, più stress, più competizione, più pressione, più controlli. Insomma, spremere i lavoratori. Parallelamente a questa evoluzione, in gran parte dell’occidente è stata progressivamente riformata la struttura stessa del mercato del lavoro rendendolo più flessibile, determinando un aumento dell’incertezza della pressione, e dello stress per la maggior parte delle persone. Questo è il prezzo che dobbiamo pagare per la prosperità economica.
Recentemente però in economia si sta affermando una teoria diversa, originata da studi di psicologia sociale. Questa teoria permette di individuare le condizioni sotto le quali gli incentivi hanno effetti positivi e sottolinea che se queste condizioni vengono a mancare gli incentivi possono avere effetti perversi ed indesiderati.
La teoria della sostituzione delle motivazioni. Negli anni ’70 sociologo Titmuss sostenne che l’introduzione di incentivi monetari alla donazione del sangue avrebbe diminuito e non aumentato la disponibilità della gente a donare sangue. Più recentemente Gneezy e Rustichini hanno mostrato che l’introduzione di multe a carico dei genitori che prelevavano in ritardo i loro figli dagli asili alla fine della giornata, aumentava il numero di ritardi piuttosto che diminuirlo. La teoria della sostituzione delle motivazioni offre una spiegazione di questi comportamenti. Tale teoria introduce la distinzione tra motivazioni estrinseche (o strumentali) e intrinseche (o non strumentali). Il concetto di motivazioni intrinseche fa riferimento a quelle attività che non ricevono alcuna gratificazione se non l’attività in sé. Le attività motivate intrinsecamente sono contrapposte a quelle motivate estrinsecamente, cioè a quelle attività che sono strumentali al raggiungimento di qualche altro scopo che non sia l’attività in sé. Ad esempio, una relazione di amicizia è motivata intrinsecamente, mentre una relazione commerciale è motivata dall’obiettivo di un vantaggio economico. La teoria della sostituzione delle motivazioni afferma che queste motivazioni non si sommano ma tendono a sostituirsi: introdurre la motivazione del denaro per la donazione di sangue non si somma alla motivazione del senso civico o di solidarietà, ma la sostituisce. Ecco perché l’offerta di sangue donato può diminuire se viene introdotto un compenso; introdurre multe a carico di chi preleva i figli in ritardo all’asilo non aumenta la disponibilità a contribuire al buon funzionamento dell’asilo, ma la sostituisce.
La questione sottostante alla sostituzione delle motivazioni è il bisogno umano di dare un senso a ciò che si fa. Perchè motivare ciò che facciamo significa proprio dargli un senso. La sostituzione delle motivazioni chiarisce che l’organizzazione economica fornisce dei perché, cioè dà risposte al nostro bisogno di senso, di spiegare perché facciamo qualcosa. Fornendo alcuni perché ne esclude altri.
Il paradosso della soddisfazione per il lavoro. Se osserviamo l’andamento nel tempo della soddisfazione che gli individui provano per il proprio lavoro (fig 1), notiamo che, nonostante un forte aumento dei salari, la soddisfazione per il lavoro in USA è rimasta sostanzialmente costante negli oltre 30 anni considerati.
Figura 1) USA : soddisfazione media per il lavoro e salari medi, 1972 – 2004
Nota: I dati sulla soddisfazione per il proprio lavoro sono tratti dalla US General Social Survey e sono basati sulle risposte a domande del tipo: "tutto considerato quanto sei soddisfatto del tuo lavoro?". Sull’asse verticale di destra è riportato l’indice annuale dei salari medi per occupato (anno base = 2005). I dati sono tratti dall’OECD – Unit Labour Costs Annual Indicators e riguardano l’intera economia americana tra il 1972 e il 2004.
La stabilità della soddisfazione per il lavoro è allo stesso tempo sorprendente e deludente per la teoria economica. Infatti, secondo quest’ultima, dato che il lavoro è una attività strumentale, sarebbe lecito aspettarsi che la soddisfazione per il lavoro sia fortemente influenzata dal livello delle retribuzioni. Ma se il potere d’acquisto di queste ultime è enormemente cresciuto negli ultimi 30 anni, ovvero se le retribuzioni sono cresciute, perché la soddisfazione per il lavoro è rimasta sostanzialmente stabile? Che cosa determina la soddisfazione che gli individui provano per il proprio lavoro?
Una vasta mole di ricerche confermano che il livello del salario influenza positivamente il benessere sul lavoro, ma indicano anche che molti altri fattori sono importanti, in primis i bisogni relazionali. La qualità delle relazioni con i colleghi e l’ambiente lavorativo in generale ha un’importanza decisiva per la soddisfazione per il lavoro. La percezione della fiducia tra le persone con cui si lavora ha un impatto talmente grande da essere stimato pari a quello del 40% del salario (Helliwell e Huang 2005). Inoltre il benessere sul lavoro aumenta quando le relazioni con i superiori sono percepite come improntate al rispetto, alla collaborazione ed al sostegno (Diener e Seligman 2004 e Warr 1999).
Oltre ai fattori relazionali, la soddisfazione per il proprio lavoro aumenta con la percezione di controllo su di esso, con la opportunità di esprimere le proprie capacità e con la varietà dei compiti svolti. In sostanza, ciò che conta per generare soddisfazione per il lavoro non è solo la soddisfazione di bisogni economici, ma anche di bisogni che sono strettamente connessi alle motivazioni intrinseche, cioè quelli che gli psicologi sociali chiamano bisogni di relazionalità, autonomia e di auto-espressione.
Le motivazioni intrinseche, quindi, sono una componente fondamentale del benessere, il che indica una ricetta chiara su cosa dovremmo fare per migliorare la soddisfazione per il lavoro:
i) Ridisegnare il contenuto dei processi di lavoro in modo da renderli più interessanti. Esperimenti di “job rotation” e “work re-design” hanno dato buoni risultati a questo proposito. Ad es. Griffin (1991) in un esperimento di work re-design ha cambiato i compiti di impiegati bancari in modo da renderli più interessanti e gratificanti da un punto di vista professionale. Il benessere sul lavoro è aumentato nel breve termine. Anche la produttività ha mostrato un aumento, anche se in un arco di tempo più lungo (due anni). In generale la tendenza secolare alla parcellizzazione del lavoro andrebbe limitata.
ii) Aumentare il grado di discrezionalità ed autonomia dei lavoratori.
iii) Ridurre ciò che nella organizzazione del lavoro produce stress: pressione, controlli, incentivi.
iv) Aumentare la compatibilità tra il lavoro ed altre sfere della vita. Politiche per la flessibilità degli orari; facilitazioni per tenere i bambini vicino al luogo di lavoro e per lo svolgimento del lavoro a casa; incremento dei permessi per motivi familiari o di studio.
v) Migliorare il contenuto relazionale della vita lavorativa. La formazione dei dirigenti dovrebbe includere gli aspetti relazionali come la consapevolezza dell’importanza di un corretto apprezzamento del lavoro altrui e di rapporti improntati al rispetto.
I limiti degli incentivi. Nel linguaggio dell’economia, incentivare un lavoratore significa connettere la remunerazione ad una qualche misura della qualità o quantità della prestazione. In tema di organizzazione del lavoro il messaggio inviato dalla teoria economica dominante (si veda ad es. Milgrom e Roberts) è: ciò che è desiderabile è la massima estensione possibile degli incentivi. Il problema, però, è che la possibilità di estendere gli incentivi incontra dei limiti in quanto non tutti gli aspetti della prestazione di lavoro sono facilmente misurabili. Di norma si riesce solo a misurarne alcuni per cui l’incentivazione riguarda solo gli aspetti misurabili lasciando fuori gli altri. Ad esempio, la cooperazione tra colleghi di lavoro gioca un ruolo importante per il successo di un’impresa, ma questo è un aspetto tipicamente molto difficile da misurare.
Il caso della Salomon Brothers, una delle maggiori banche d’investimento del mondo, costituisce un celebre esempio di una cultura d’impresa fortemente competitiva e di una tradizione di sistemi di retribuzione fortemente incentivanti che ben presto dettero luogo ad una serie di problemi riconducibili alla mancata cooperazione tra i dipendenti. Negli anni ’80, per ovviare a questi problemi, fu richiesta un’autorevole consulenza che propose di modificare il sistema di incentivazione introducendo un’innovazione che si sarebbe diffusa a tutte le grandi imprese del pianeta: le stock options. In pratica l’impresa corrisponde ai propri managers una parte della retribuzione in titoli azionari della impresa stessa, in modo da favorire l’identificazione dell’interesse personale con quello generale dell’impresa.
Ma la storia delle stock options non ha un lieto fine. La vicenda si è conclusa con l’ondata di improvvisi fallimenti che ha colpito il capitalismo americano agli inizi del nuovo millennio i quali hanno riguardato alcune mega-imprese (Enron, World.com, ecc.) dai bilanci apparentemente sanissimi, ed anzi largamente raccomandate come investimento dagli analisti finanziari. Solo dopo il fallimento si è scoperto che i bilanci erano stati largamente ed ingegnosamente “bolliti” per far apparire florida la situazione di imprese in difficoltà e garantire elevati compensi ai managers.
L’invenzione delle stock options quindi suona un po’ come la consegna alla volpe delle chiavi del pollaio. Ciò dimostra i limiti del buon funzionamento degli incentivi in assenza di una perfetta misurabilità. Sfortunatamente, il mondo fatato in cui gli incentivi funzionano bene è un mondo in cui il prodotto del lavoro è facilmente misurabile. Nel mondo reale le terapie in termini di estensione degli incentivi possono risultare peggiori del male che si intendeva curare.
La prospettiva, diffusasi nella teoria e nella pratica economica nell’ultimo quarto di secolo, di affidare interamente l’efficienza del lavoro all’estensione dell’incentivazione è illusoria. Nessuna economia può funzionare facendo leva solo sul tornaconto personale. Niente può sostituire completamente le motivazioni intrinseche come il senso di responsabilità, la coscienza professionale e la consapevolezza del proprio ruolo.