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Del “bene comune” non si parlerà mai abbastanza e qualunque circostanza può essere adatta per farlo. Soprattutto quando sono in gioco le sorti della società e la felicità delle persone. Sviluppo e sottosviluppo sono categorie socio-economiche che rappresentano il grado della qualità di vita di persone e di popolazione. Più ancora che il termine “crescita”, adoperato per descrivere l’aspetto economico di una comunità, lo “sviluppo” indica l’insieme delle variabili che costituuiscono la completezza della esistenza umana: cultura, relazioni, politica, sentimenti, benessere socio-psico-fisico.

Spesso i due termini camminano insieme e, in verità, senza crescita non c’è sviluppo, ma la crescita non genera lo sviluppo e può aversi senza di esso. La crescita è necessaria per lo sviluppo, ma non è sufficiente. La Conferenza Episcopale Italiana, nel febbraio scorso, ha pubblicato un Documento sulla Questione meridionale. Già 20 anni fa un altro documento della CEI affrontò il medesimo tema e ci sarebbe da chiedersi come mai un così autorevole insegnamento sia rimasto inascoltato.

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Il problema del Mezzogiorno d’Italia è materia la cui soluzione chiama in causa l’intera comunità nazionale e ai Vescovi non è richiesto di approntare soluzioni tecniche e politiche: il loro ruolo si svolge nell’ambito dell’annunzio ‘profetico’ della promozione dei valori e in quello dell’azione educativa. In questa ottica si colloca il recente documento Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. La Questione meridionale, “irrisolta”, come già diceva Salvemini, è “questione nazionale”. Un insieme di motivi ‘esogeni’ sono da addebbitare, fin dall’Unità di’Italia, alle politiche nazionali di mancati interventi o di interventi sbagliati e penalizzanti, ma è soprattutto sulle questioni ‘endogene’ che qui si vuole brevemente riflettere. La crisi e l’insufficienza delle politiche non può assolvere la società meridionale da tutte le colpe di cui è responsabile. Il Documento CEI analizza i problemi che gravano sulla vita pubblica e privata dei cittadini, carente di partecipazione, di democrazia, di solidarietà, di impegno per il bene comune. Sono i mali di sempre. Il fenomeno della globalizzazione viene ad esasperare la tendenza alla chiusura egoistica e allo sfilacciamento dei legami sociali, già così evidenti nella società meridionale. Il “familismo amorale”, studiato da Banfield negli anni ’50 del ‘900, sembra essersi deteriorato in “familismo immorale”, il sentimento che colloca al centro della vita individuale e sociale l’interesse privato, di famiglia e di gruppo, facendone il valore unico e la misura dell’etica. In questa situazione non c’è spazio per la solidarietà né per il bene comune. Tale “familismo” genera la criminalità organizzata –mafia, ‘ndranghea, camorra- che utilizza gli strumenti più vari, comprese le politiche nazionali e regionali, dando vita alle diverse forme di clientelismo, di collusione, di sfruttamento e di illegalità. Questo male genera la disperazione più grave secondo cui “vivere onestamente sia inutile” e mina alle radici il sorgere e il rafforzarsi della risorsa che è la società civile, fondata sulla propria autonomia organizzativa e funzionale, animata dalla solidarietà e dalla ricerca del bene comune, collaborativa con le istituzioni politiche ed amministrative, in un rapporto di lealtà e nel rispetto rigoroso della legalità. La società meridionale si avvale di pratiche sociali e socio-economiche rappresentate, appunto, dal familismo, una sorta di cancro della società. Queste forme di società pre-moderna rappresentano un vero e proprio “furto di fiducia” nei cittadini e nei giovani che vedono precludersi il futuro di una vita lavorativa e familiare onesta. Uscire dalla crisi significa cercare alternative all’economia criminale in un clima di riacquistata credibilità da parte delle istituzioni locali e della intera società civile. Qualunque politica di sviluppo “esogena” risulta necessaria ma non sufficiente, se non viene calata profondamente in un tessuto capace di recepirlo e di svilupparlo ulteriormente. Il tessuto è costituito dalle “vocazioni territoriali” da una parte e dalla presenza qualificata di istituzioni locali e di società civile capaci di rafforzarle dall’altra. Le antiche e ricorrenti consuetudini di amministrazioni locali improntate a politiche redistributive di breve e inutile respiro, hanno cavalcato le situazioni, senza avvertire l’impegno per l’investimento e la progettualità. L’assenza cronica e sistematica di leadership capace, si coniuga con una velleitaria società civile che, forte della retorica del decantato “sviluppo dal basso”, non riesce a configurarsi come vero e forte “capitale sociale”, capace di essere protagonista di sviluppo e di cambiamento. Il Documento della CEI auspica un “nuovo protagonismo della società civile e della comunità ecclesiale” (n.11). Il protagonismo della società civile passa attraverso l’acquisizione e la pratica consapevole della ‘cittadinanza’ e dei diritti di cittadinanza, fondamentale nell’assetto politico e in quello societario: su di essa si è andato costruendo lo Stato nazionale e intorno ad essa si è andato evolvendo l’eguaglianza in tutte le sue forme  espresse nel sistema di welfare che lo Stato e la società si sono dati. La cittadinanza esprime il senso dell’appartenenza, non solo geografico-territoriale, e genera la solidarietà. Ma la solidarietà resterebbe una parola vuota o sentimentale se non si innesta all’altro grande principio etico della responsabilità. Il tema della scarsa presenza civicnes (come la chiamava Putman) o di senso civico pone l’altro problema riguardante l’esigenza di una società veramente “civile” che, nella lotta alla inefficienza, intende combattere l’illegalità, la collusione politica ed amministrativa affermando partecipazione e tensione al bene comune. Non c’è dubbio che il male che più esplicitamente investe il Meridione sia rappresentato dalla criminalità organizzata, né conforta sapere che sia sbarcata al Nord, mantenendo tuttavia le sue radici nel territorio di origine: una sorta di federalismo ‘al contrario’! L’assenza di senso civico e la latitanza della società civile sono la causa e il segno più visibile di una tale nefasta presenza. Non soltanto perché mafia, ‘ndrangeta e camorra costituiscono la realtà economica alternativa a quella dello Stato e della società sottraendo le risorse destinate al bene pubblico e alla corretta redistribuzione economica e sociale. Ma soprattutto perché creano una società alternativa a quella civile. L’aspetto organizzativo e l’autonomia sono comuni ad ambedue le società. Ciò che le distingue irrimediabilmente è invece la piattaforma finalistica, motivazionale ed etica: per la “società civile” l’ethos è rappresentato dal perseguimento degli interessi generali, del bene comune e della solidarietà; per l’altra società la finalità è costituita dall’interesse personale e familistico, per cui può essere definita “incivile”. La “società civile” nasce da una consapevolezza di autonomia, ma si sviluppa e cresce quando questa autocoscienza individuale sfocia nella autocoscienza collettiva e orienta la propria azione in favore di una appartenenza più grande. La “società incivile” della criminalità organizzata invece si muove in un ambito di illegalità e di violenza e non consente alcuna partecipazione democratica. Nel Meridione non sono mancati e non mancano esempi eroici di impegno democratico e di esperienze di società civile, che hanno nella legalità il loro valore di riferimento. Ma “guai a quelle società che hanno bisogno di eroi!”. Non occorre educare all’eroismo; è necessario educare alla banalità del bene, necessario per il bene comune. Il passo decisivo perché il Mezzogiorno superi il divario con il resto del Paese deve camminare sul terreno politico, etico e civile e ricreare nel tessuto umano e sociale una speranza che non delude e che generi protagonismo e rifiuti atteggiamenti di passiva assuefazione e di comodo quanto inutile assistenzialismo. Lo sviluppo è il frutto del senso della cittadinanza e dello Stato, della legalità e dell’impegno nella società civile. Su queste direttrici si valuterà l’assunzione di responsabilità delle singole persone, delle famiglie, delle comunità. A partire da quelle ecclesiali, a cui si rivolgono in special modo i Vescovi.
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