Ad ogni buon conto, il rischio è che tale caso giudiziario possa essere strumentalizzato. La tentazione di fare di tutta l’erba un fascio è sempre presente, soprattutto fra i fautori di una politica di “tolleranza zero” nei confronti degli immigrati. Senza contare che la presunta colpevole dell’omicidio è una lavoratrice proveniente dalla Romania. Un gruppo nazionale che provoca spesso reazioni scomposte nell’opinione pubblica: da un velato senso di apprensione ad una ostilità aperta, ben esemplificata dallo stereotipo sulla “pericolosità dei rumeni”. In tal senso, è necessario ragionare con cautela, per evitare che l’onda montante della xenofobia dilaghi nella nostra società. Bisogna inquadrare in un contesto più ampio il fenomeno delle collaboratrici domestiche, riflettendo sulle cause che spingono molte famiglie italiane a pagare una persona di un’altra nazionalità per accudire gli anziani o, semplicemente, per tenere in ordine la propria casa.
Le stime più aggiornate fanno ritenere che, in Italia, la quota complessiva di assistenti familiari straniere (il femminile è quasi d’obbligo in un lavoro svolto quasi esclusivamente da donne) oscilli tra un milione e 1.600.000 unità (si veda il dossier Il welfare privato. Viaggio nel pianeta dell’assistenza, Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2007). La forbice è dovuta alla componente non regolare, particolarmente incisiva in questa forma di occupazione, che rende quanto mai aleatorie le statistiche. In ogni caso, tra il 2000 ed il 2007, si è assistito ad una crescita esponenziale degli addetti in questo settore. Il che la dice lunga sull’ampliamento dei fabbisogni di cura espressi dalle famiglie italiane. Diversi fattori spingono in questa direzione: l’invecchiamento della popolazione, la difficoltà di conciliare tempi di vita e tempi di lavoro nelle coppie a “doppia carriera”, l’inconsistenza delle politiche sociali nel nostro paese e, non ultimi, i cambiamenti nelle migrazioni internazionali. Fatto sta che la collaboratrice straniera è diventata una soluzione a portata di mano per quei nuclei familiari che, da soli, non riuscirebbero a far fronte al sostentamento di un genitore non autosufficiente o di un figlio, oltre al disbrigo delle faccende domestiche. Non tutto, però, può essere lasciato ai meccanismi di adattamento fra domanda e offerta nel mercato dei servizi alla persona.
Come recita il titolo di una recente ricerca dell’Iref (si veda la nota in fondo all’articolo), quello delle assistenti familiari è principalmente un “welfare fatto in casa”, senza mediazioni sociali e istituzionali. Il punto è che l’incontro spontaneo tra famiglia e lavoratrice può dar luogo a situazioni assai differenti sul piano economico e sociale, culminando sovente in condizioni alquanto penalizzanti. Stando ai risultati dell’indagine dell’IREF, si delineano almeno quattro tipologie di assistenti familiari.
Vi è un primo gruppo (31,4%, circa un terzo degli intervistati) formato dalle “collaboratrici domestiche” vere e proprie: lavoratrici che prestano servizio in più famiglie (nel 51,1% dei casi coppie a doppia carriera), limitandosi a pulire la casa o fare la spesa (dunque senza svolgere mansioni particolarmente impegnative di cura). Il rapporto con i diversi datori di lavoro sfocia molto spesso (62%) nel versamento (se non altro in parte) dei contributi previdenziali. Ne risulta una condizione abbastanza favorevole sotto il profilo economico e dell’autonomia personale: in questo gruppo il reddito medio mensile è pari a 942 euro, con un carico medio di lavoro settimanale più o meno coincidente con il part-time (25 ore). La presenza del coniuge in Italia (77,7%) garantisce quasi sempre l’accesso ad una abitazione (90,5%). Non sorprende che in questo gruppo sia nutrita la presenza di immigrate provenienti dall’Asia (leggi Filippine), con un soggiorno prolungato nel nostro paese (più di cinque anni, 56,9%). Col trascorrere del tempo, queste “casalinghe di riserva” hanno trovato una collocazione stabile nella nostra società.
Il secondo gruppo (17,4% del campione) è costituito da baby-sitter e “tate” che accudiscono i bambini presso coppie a doppia carriera (78,9%). Si tratta di donne piuttosto giovani (fino a 35 anni, 50,9%), che lavorano per circa 34 ore settimanali, con un reddito mensile di 896 euro e una posizione contributiva regolare (64,2% dei casi). Rispetto alle collaboratrici domestiche, si registra una situazione lavorativa lievemente peggiore, sia per il carico di lavoro, sia per l’entità dello stipendio. La funzione della baby-sitter è comunque meno onerosa rispetto a quella di chi assiste un anziano. Accudire un bambino è di sicuro un compito di responsabilità, ma si può sempre mantenere un confine tra lavoro e vita familiare (prima o poi i genitori rientrano nella propria dimora): prova ne è che il 78,9% di queste intervistate vivono per conto proprio, anche perché il proprio marito risiede in Italia (72,9%). Sebbene si tratti di persone immigrate più di recente (meno di cinque anni – 56,3%), il loro inserimento sociale non desta particolari problemi. Forse perché richiamate in Italia dal proprio partner, queste donne possono scegliere, indirizzandosi verso una nicchia di mercato promettente. Il ricorso ad una tata straniera è infatti destinato ad accrescersi nei prossimi anni. Le giovani coppie italiane, alle prese con un doppio impiego (sempre più flessibile), preferiscono affidare la propria prole ad una persona di fiducia, che opera nello spazio domestico, piuttosto che rivolgersi a servizi esterni di custodia.
Radicalmente diversa è la posizione delle assistenti familiari che lavorano a stretto contatto con gli anziani. E’ questo il gruppo più numeroso emerso dalla ricerca (42,2% del campione). Le “badanti in monocommitenza” vivono una condizione lavorativa assai disagevole: prestano le loro cure ad anziani rimasti spesso soli (58,6%), in uno stato precario di salute derivante dall’età avanzata (ultraottantenni). Il rapporto di lavoro è per sua natura ambivalente. Prima di tutto perché viene svolto in regime di convivenza (59,1%). E’ difficile mettere dei paletti fra la sfera lavorativa e quella privata se si vive sotto lo stesso tetto con il proprio assistito (si pensi alle chiamate notturne di un ammalato). Certo, si può sempre obiettare che la co-residenza sia un vantaggio, visto che la collaboratrice dispone in tal modo di un alloggio gratuito. Nondimeno, è opportuno analizzare le conseguenze di questa forma di impiego “a domicilio”: i carichi di lavoro sono molto più pesanti (in media 53 ore di lavoro settimanale), con una paga mensile tendenzialmente più bassa (877 euro). Poi c’è la questione del lavoro “in nero”: in questo gruppo si riscontra la percentuale più elevata di intervistate a cui non vengono versati i contributi previdenziali (46%). Ciò dipende anche dalle ristrettezze economiche del datore di lavoro: pensionati con un reddito modesto. Come si vede, il vissuto delle “badanti” non è facile. Si viene a creare, non di rado, una condizione di doppio isolamento: quella di un anziano debole, bisognoso di cure e di comprensione; e quella di una emigrata che viene coinvolta in un legame totalizzante. Un legame reso ancor più problematico dal fatto che i figli della collaboratrice domestica sono rimasti in patria (48,5%), assieme al coniuge (56%). La biografia di queste lavoratrici è pertanto in bilico: non hanno messo radici nel nostro paese, per tale ragione sostengono di voler tornare nella nazione di origine (79,7%). E’ qui che il modello del “welfare fatto in casa” può entrare in crisi: da una parte c’è il desiderio di un cittadino in età avanzata (e dei suoi parenti stretti), di costruire un rapporto durevole con colei che offre attenzione e sostegno; dall’altra ci sono i progetti di una madre straniera avviata verso la mezza età (42 anni in media), che pensa di rientrare in famiglia il prima possibile. In queste circostanze, piuttosto diffuse a giudicare dai dati dell’indagine, possono innescarsi conflitti di aspettative che non giovano a nessuno. L’assistente familiare resta intrappolata in una occupazione che le monopolizza l’esistenza, procurandole stress e solitudine: è arduo immaginare di integrarsi nella società ospite quando si diventa, volenti o nolenti, il bastone di una “vecchiaia deprivata”. L’anziano invece può soffrire per una sindrome di abbandono, interpretando la volontà di una donna che gli è vicina, ma che è pronta a riprendere il suo viaggio per ricongiungersi con i suoi familiari.
A ben vedere, l’assistenza familiare non può sostituire la famiglia e lo stato sociale. Non si può lasciare ad una “normale” relazione di lavoro la funzione di dare un significato compiuto alla vecchiaia, rendendola un’esperienza dignitosa e confortante. Beninteso, non si arriva sempre a questi estremi. In una minoranza di casi (9% del campione), le “badanti” operano in multicommitenza. E godono di una situazione molto migliore rispetto alle loro colleghe: guadagnano in media 1058 euro al mese, lavorando molto di meno (30 ore settimanali). Si tratta però di un “élite” nel variegato mondo dell’assistenza familiare. Lavoratrici che operano come infermiere professionali, gestendo con una notevole intraprendenza più anziani contemporaneamente. Ma le famiglie che le arruolano non versano in situazioni di disagio economico. Possono spendere, magari avvalendosi dei servizi di due collaboratrici a part-time.
Quest’ultimo dato della ricerca è indicativo. A certe condizioni, l’assistenza familiare può ottenere un adeguato riconoscimento professionale. Per ora questo accade in una fascia ristretta di mercato, ossia tra le famiglie più abbienti. C’è da chiedersi se questo possa bastare per un paese dove questo lavoro di cura è diventato cruciale per milioni di famiglie con uno status socio-economico medio o basso. E’ perfino scontato aggiungere che la risposta è negativa. Per questo sono necessarie delle mediazioni istituzionali e sociali, in un settore che non può essere lasciato solo alle leggi del mercato.
In tale prospettiva, bisognerebbe agire su molteplici fronti; innanzi tutto, aumentando i fondi per la “non autosufficienza” e concedendo significativi sgravi fiscali alle famiglie che si avvalgono dei servizi delle collaboratrici domestiche, mettendole in regola. Accanto a ciò, si potrebbero costituire – come ha proposto di recente l’AUSER – degli albi comunali per le “badanti” (meglio assistenti familiari), offrendo un accreditamento (e formazione professionale) a chi presta sostegno agli anziani. Ma ciò non sarebbe ancora sufficiente. Ci vuole una dose maggiore di inventiva in un’Unione Europea che sta abbattendo rapidamente le barriere verso Est. Infatti, tutti gli studi disponibili (non solo quello dell’Iref), segnalano che è cambiata la natura dei flussi migratori delle donne che giungono in Italia. Negli anni Ottanta le colf erano essenzialmente giovanissime e provenienti dall’Asia o dall’America Latina, con un progetto migratorio di lungo periodo. Ciò rendeva più stabile la loro presenza nel mercato del lavoro domestico. Oggi non è più così: le nuove colf sono donne di mezza età, che (come si è detto) lasciano la propria famiglia in patria. Il luogo d’origine non è lontano. La Romania e l’Ucraina sono dietro l’angolo: la prima è già entrata a far parte dell’Unione Europea, la seconda (presto o tardi) lo farà. Dunque, lo scenario non è più quello di un’emigrazione senza ritorno, quanto quello di una mobilità professionale continua fra paesi sempre più interconnessi. La “badante” ha la valigia in mano. Soltanto un viaggio low cost e una congrua riserva di risparmi la separano dal rientro nella terra natia. Quanti anziani rimarranno soli, dilaniati dalla sindrome dell’abbandono? Forse è arrivato il momento di ripensare le forme di assistenza familiare, rendendole meno soggette ad una relazione esclusiva tra collaboratrice e la persona assistita. Perché non promuovere la costituzione di imprese sociali fra diverse lavoratrici straniere? I sindacati e le associazioni del terzo settore potrebbero giocare un ruolo decisivo in questa partita, contribuendo a rendere meno usurante (e probabilmente più professionalizzato) il lavoro di cura nelle famiglie. Anche questo è un modo per prevenire incidenti fatali come quello di Albano Laziale.
Nota sulla ricerca
L’indagine dell’Iref è stata presentata alla stampa nel mese di giugno 2007. Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, è disponibile il rapporto di ricerca, a cura di Marta Simoni e Gianfranco Zucca: Il Welfare “fatto in casa”. Indagine nazionale sui collaboratori domestici stranieri che lavorano a sostegno delle famiglie italiane, Roma, 2007. Per richiedere il rapporto si possono contattare i ricercatori ai seguenti indirizzi: marta.simoni@acli.it; gianfranco.zucca@acli.it