La nozione di povertà educativa è stata introdotta da alcuni sociologi ed economisti alla fine degli anni ’90 per sottolineare che la povertà è un fenomeno multidimensionale che non può essere ridotto alla sua componente strettamente economica. L’idea è stata successivamente ripresa in un rapporto di “Save the Children” e infine in un recente bando ministeriale, diventando così familiare per un pubblico più ampio.
Così come per la dimensione economica della povertà, il riferimento teorico è all’ideale dell’uguaglianza di condizioni, ossia l’idea che ogni essere umano abbia diritto a godere dei livelli essenziali di un insieme di beni primari necessari al suo sviluppo personale e alla sua inclusione sociale. Nelle società capitalistiche, questa idea ha consentito di porre un argine alle disuguaglianze economiche, affermando che esse non possono raggiungere livelli tali da trasformare la deprivazione economica in marginalità sociale. Con la nozione di povertà educativa, s’intende sottolineare che anche le disuguaglianze nelle competenze e nelle conoscenze acquisite durante i processi educativi vanno contenute. Ogni essere umano ha diritto a livelli di riuscita formativa tali da permettere la sua piena realizzazione personale e inclusione sociale.
L’idea di povertà educativa è quindi strettamente legata all’approccio delle capabilities sviluppato da Sen e Nussbaum: l’uguaglianza sociale richiede di promuovere la libertà individuale, intesa in senso positivo come opportunità di realizzare i propri progetti di vita. Questa opportunità richiede non solo risorse economiche, ma anche le risorse culturali e riflessive necessarie alla realizzazione personale e alla piena cittadinanza.
Il concetto di povertà educativa ha quindi un significato ampio, anche se poi la sua misurazione empirica è affidata di norma a indicatori empirici ben più circoscritti: i livelli di competenza linguistica, matematica, scientifica o economico-finanziaria, l’abbandono scolastico, le qualifiche formative acquisite. La dimensione delle competenze è particolarmente rilevante e potrebbe/dovrebbe essere arricchita con ulteriori indicatori, ad esempio le competenze civiche, la conoscenza dell’inglese, le abilità informatiche.
2. Come ridurre la povertà educativa? Un breve elogio del pragmatismo
Il profilo dei soggetti esposti ai maggiori rischi di povertà educativa è ampiamente noto: maschi, genitori con livelli ridotti di scolarità e in condizione di marginalità occupazionale o povertà economica, famiglie straniere, nuclei familiari monoparentali o sottoposti a condizioni di disagio sociale. Inoltre in Italia i rischi di povertà educativa sono molto maggiori nelle regioni meridionali.
Come contrastare il fenomeno? Una risposta onesta a questa domanda è che in Italia sappiamo molto poco su cosa funziona davvero. Beninteso, esistono alcune idea generali condivise. Ad esempio, è ampiamente riconosciuto che, poiché l’apprendimento è un processo cumulativo dove le prime competenze acquisite sono i mattoni su cui si possono, o non si possono, costruire le competenze di ordine superiore, il contrasto alla povertà educativa deve iniziare dai primi anni di vita. E’ molto condivisa inoltre l’idea che l’accesso a servizi per l’infanzia di qualità svolga un ruolo essenziale per lo sviluppo delle competenze di base. Al contempo si riconosce che, poiché i bambini passano almeno il 50% del proprio tempo al di fuori di questi servizi (conteggiando anche i fine settimana e le vacanze) e sotto la supervisione diretta o indiretta di genitori e parenti, potenziare le competenze e le motivazioni delle famiglie di origine è altrettanto importante. Ad esempio, promuovere la riuscita educativa di un bambino straniero richiede anche di investire sulla sicurezza economica, sull’inserimento sociale e sulle capacità linguistiche dei suoi genitori. Infine, il sostegno precoce e personalizzato agli allievi in difficoltà nella scuola di base e l’orientamento alle scuole superiori sono riconosciuti come snodi essenziali nella prevenzione della povertà educativa.
Queste idee sono però solamente linee strategiche molto generali: il vero problema è come metterle in azione efficacemente. Chiunque operi nel lavoro sociale sa benissimo che un’idea può essere ottima in partenza e rivelarsi poi del tutto fallimentare quando viene messa in pratica, per un insieme di ostacoli grandi e piccoli che impediscono di raggiungere l’obiettivo prefissato. E’ il modo in cui mettiamo in pratica l’idea, sin nei più piccoli dettagli, ciò che fa la differenza. Come dicono gli inglesi, implementation matters.
Vediamo un esempio tra i tanti possibili: nella letteratura internazionale, uno dei mantra della prevenzione della povertà educativa è il coinvolgimento dei genitori (parental involvement) e una delle azioni ritenute più efficaci è la lettura di libri di storie ai bambini sin dalla prima infanzia. E’ una bella idea, ma purtroppo la letteratura è piena di studi scientifici che mostrano i fallimenti degli interventi di promozione della lettura parentale. E questo non dovrebbe affatto sorprenderci. Le cose che possono andare storte sono molte: possiamo dare libri ai genitori e spiegare loro l’importanza di leggerli, ma nei nuclei dove si concentrano disagio economico, sociale e culturale non è difficile immaginare che molti genitori saranno poco ricettivi, quindi bisogna trovare le modalità comunicative adatte; inoltre non basta convincere i genitori in astratto, essi devono poi mettere in atto una routine regolare; la lettura diventa un rituale piacevole e arricchente solo se spieghiamo ai genitori anche come leggere efficacemente; la scelta dei libri poi dev’essere tarata molto bene: se il livello di vocabolario è un po’ troppo complesso, genitori e bambini possono scoraggiarsi o annoiarsi, mentre se è troppo semplice l’apprendimento è limitato; bisogna adattare efficacemente l’intervento alle famiglie straniere; e così via.
Davanti a queste difficoltà, l’unico atteggiamento difendibile è il pragmatismo: imparare dagli errori. Ma per imparare dagli errori, dobbiamo capire che abbiamo sbagliato, cioè capire che un intervento non ha funzionato. Invece la valutazione dell’efficacia degli interventi nel lavoro sociale è una prassi molto rara in Italia. Alle volte la “valutazione” non c’è, altre volte è intesa come mera rendicontazione (“avete speso tutti i soldi?” Come se spendere tutto equivalesse a spendere bene); altre volte, è fatta in modo ingenuo. Ad esempio, come potremmo valutare se un intervento di promozione della lettura parentale funziona? Anzitutto dobbiamo fissare chiaramente l’obiettivo che vogliamo raggiungere e come misurarlo (ad esempio vogliamo migliorare le competenze linguistiche, descritte da una misura di vocabolario ricettivo). Questa è una banalità che spesso nei fatti viene presa poco sul serio: davanti a un progetto, si tende a mettere in campo quante più azioni possibili, ma senza preoccuparsi di verificare puntualmente la loro efficacia: sono buone idee e si presume che qualche effetto benefico lo abbiano.
Dopodiché misureremo le competenze linguistiche dei bambini prima e dopo l’intervento. Ma è evidente che, se osserviamo un miglioramento nel tempo delle competenze, non possiamo concludere che esso derivi dal nostro intervento: dopotutto, il vocabolario dei bambini cresce in fretta anche solo per osmosi con l’ambiente circostante; il nostro intervento potrebbe essere stato del tutto inefficace per uno dei tanti motivi menzionati sopra. Dobbiamo allora confrontare il miglioramento delle competenze dei bambini coinvolti nell’intervento con quello di un gruppo di confronto che non vi ha partecipato; se guardiamo cosa succede solo a chi ha partecipato all’intervento, stiamo facendo l’assunto eroico che, in assenza di questo intervento, non sarebbe cambiato nulla.
Infine, affinché i due gruppi siano realmente confrontabili in tutto e per tutto, l’assegnazione a uno dei due gruppi deve avvenire necessariamente con una procedura di estrazione casuale (sperimentazioni randomizzate). Invece, nei rari casi in cui si effettuano valutazioni che confrontano due gruppi, questi sono costruiti un po’ a casaccio, con criteri ad hoc che pregiudicano la loro reale confrontabilità.
Fissare obiettivi chiari e misurabili, confrontare due gruppi nel tempo, assicurarsi che i due gruppi siano realmente confrontabili: è questo l’unico modo per sapere se l’intervento ha funzionato o meno. I bandi sulla povertà educativa hanno innovato positivamente su questo versante, richiedendo che i progetti contenessero valutazioni d’impatto sperimentali o quasi-sperimentali. Purtroppo questa metodologia è poco praticata in Italia, mentre in altri paesi come l’Olanda o l’Inghilterra è più sviluppata e quindi più familiare agli stessi operatori sociali, quindi sarebbe auspicabile pensare ad azioni formative su questa metodologia.
Le sperimentazioni randomizzate permettono di capire se un intervento ha funzionato o meno. Questo è molto importante, ma non basta. A questo punto, servono altre due cose. La prima è capire cosa ha funzionato e cosa no nell’intervento, attraverso analisi qualitative della sua implementazione; ad esempio, nel nostro caso potremmo intervistare dei genitori che hanno partecipato all’intervento e capire quali difficoltà hanno incontrato. Il secondo passaggio essenziale è mettere in rete le lezioni apprese, farle diventare un patrimonio conoscitivo condiviso. Così magari nel prossimo intervento sulla lettura parentale non si ripartirà da zero. Per fare questo, servono archivi (repository) che mettano a disposizione di tutti e queste analisi di impatto e di implementazione, rendendole agevolmente fruibili a un pubblico ampio.
Provate a guardare, ad esempio, in questa banca-dati americana. Qui trovate una serie di obiettivi collegati alla lotta alla povertà educativa: migliorare le competenze matematiche, ridurre la dispersione scolastica, facilitare l’integrazione degli allievi stranieri, e così via. Per ogni obiettivo, troverete un gran numero d’interventi che sono stati messi in atto, leggerete una breve descrizione di ogni intervento, saprete se ha funzionato o meno, se si è rivelato più efficace per alcuni sottogruppi di studenti e troverete un ragionamento sui problemi di implementazione. Dettaglio molto importante: troverete anche le azioni che non hanno funzionato, per evitare di ripetere gli stessi errori. In altri paesi europei esistono esperienze simili, ma in Italia un archivio così non c’è perché le valutazioni d’impatto sono arrivate l’altro ieri. Quindi il migliore punto di partenza è capire che cosa ha funzionato altrove e chiedersi se e come possa essere adattato al contesto italiano.
Per concludere, in questo contributo ho illustrato cos’è la povertà educativa, perché è importante occuparsene e come viene misurata. Non ho proposto ricette per contrastarla, perché credo che le ricette che funzionano in Italia non le conosciamo ancora: sinora ci siamo accontentati delle buone intenzioni e delle pie speranze. Ho proposto allora un metodo per imparare a conoscere cosa funziona o meno, capire perché funziona o non funziona e condividere le lezioni apprese.