Nel frattempo abbiamo continuato ad essere uno dei paesi con welfare pubblico strutturalmente più carente.
Nel Dossier “Famiglia in cifre” prodotto dall’Istat l’anno scorso, si trova scritto che, nel quadro europeo, “in relazione alle politiche di sostegno alla famiglia, l’Italia scende alla penultima posizione con il 4,7%, mentre per le politiche di contrasto alla povertà ed esclusione sociale l’Italia si colloca nettamente in coda alla graduatoria con soltanto lo 0,2%”. Coerentemente con ciò la fecondità continua ad essere molto bassa e negli ultimi anni è anche leggermente arretrata (tornando nel 2010 a 1,4 figli per donna). Persistentemente alto rimane poi il rischio di povertà delle coppie che vanno oltre il secondo figlio.
Quello che in paesi come il nostro sembra soprattutto mancare è il riconoscimento che il sostegno alle famiglie non è un costo, ma un investimento che si ripaga ampiamente nel tempo in termini sia di maggiore crescita economica che di minori disuguaglianze sociali. Ad esempio gli asili nido che consentono di aumentare sia natalità che occupazione femminile, vanno certamente in questa direzione. Tanto che l’Europa, con gli obiettivi di Lisbona fissava per gli stati membri il raggiungimento di una copertura del 33% di servizi per l’infanzia e del 60% per l’occupazione femminile. L’Italia è uno dei paesi che meno si sono avvicinati a tali target. E non a caso è anche una delle economie cresciute di meno nel primo decennio del XXI secolo.
Il fatto, poi, di essere entrati in una fase di risorse scarse è spesso usato come un alibi per lasciare le cose come stanno. Proprio in carenza di risorse bisognerebbe, invece, investire di più dove maggiore è il ritorno in termini di benessere per le persone e di crescita economica. Il non agire in tale direzione non porta ad un risparmio ma a maggiori costi, che pagano in primis le famiglie con ricadute negative anche per la società e l’economia.
Proprio per la carenza di politiche integrate e coerenti a sostegno e stimolo dei comportamenti virtuosi, le famiglie sono state indotte a rivedere al ribasso desideri e aspirazioni: le coppie ad avere un figlio in meno, le donne a rinunciare a valorizzare adeguatamente il loro capitale umano, i giovani a ritardare l’uscita dalla famiglia di origine, e così via. Serve quindi un welfare che abbia come principale obiettivo quello di far crescere meglio il Paese, e che, a tal fine, aiuti le famiglie a mettersi nelle condizioni di stare meglio e dare di più, esplicando al miglior livello le proprie potenzialità.
In altri paesi, qualsiasi sia il tipo di governo in carica, esiste comunque una linea strategica coerente di interventi a favore della famiglia che non viene rimessa in discussione nella sua impostazione di fondo. In Italia, invece, i vari governi di diverso orientamento politico hanno sempre prodotto tante promesse seguite da deludenti azioni concrete. E’ quindi l’atteggiamento culturale e la visione strategica nei confronti delle politiche per la famiglia che vanno, prima di tutto, mutati.
Un segnale importante in questa direzione, punto di partenza per una stagione nuova, potrebbe arrivare da una ridefinizione del sistema fiscale. Il passaggio da un modello di tassazione su base individuale a uno su base familiare costituisce un riconoscimento chiaro ed esplicito del fatto che lo Stato considera come virtuosa e utile per la collettività la scelta di avere un figlio e condivide i costi di allevamento e formazione che i genitori si assumono con tale scelta. Riveste quindi sia un valore oggettivo che simbolico. Una riferimento interessante in questo senso è il quoziente familiare adottato in Francia, messo nel programma dell’attuale governo ma (finora) non realizzato.
L’obiettivo di un fisco con impostazione più strutturalmente family friendly si può ottenere attraverso diverse strade, ma è importante che l’impianto sia esplicitamente pro famiglie. Ovvero che riconosca nella sua struttura il principio che chi ha figli da allevare non può essere assoggetto ad un prelievo fiscale, a parità di reddito, analogo a di chi non ha minori a carico. Non a caso le associazioni familiari sono molto attente e sensibili su questo punto. Tanto che il loro Forum ha recentemente proposto una specifica proposta, chiamata “Fattore famiglia”, che supera alcuni rilevanti limiti del “quoziente familiare”.
Interventi strutturali e coerenti, oltre ad essere utili in sé, sono fondamentali anche per ricostruire un clima di fiducia che consenta alle famiglie di poter mettere in atto scelte impegnative e responsabilizzanti in un contesto favorevole. Finché la politica non sarà riconosciuta come un interlocutore credibile e affidabile qualsiasi singolo intervento occasionale sarà guardato con sospetto, perché potrebbe essere poco dopo contraddetto da cambiamenti in senso contrario.
Siamo partiti dall’esternazione sconsolata del sottosegretario Giovanardi. Possiamo concludere aggiungendo che negli ultimi quindici anni l’aiuto alla demografia e alle famiglie italiane è arrivato più dall’immigrazione che dall’azione politica: un paradosso per l’attuale governo o almeno per alcune sue componenti. Non c’è solo il fatto che gli immigrati rendono meno vecchia la nostra popolazione e forniscono diretto contributo alle nascite. Cruciale, in carenza di un adeguato welfare pubblico, è anche la funzione di colf e badanti per la conciliazione tra lavoro e famiglia delle coppie italiane. Una conciliazione che riguarda l’accudimento dei figli, ma anche l’assistenza ai membri anziani non autosufficienti. Senza immigrazione si accentuerebbe quindi, ancor più, la già bassa natalità, diminuirebbe ancor di più l’occupazione femminile con conseguente ulteriore peggioramento del reddito e del benessere familiare.
Ma quanto ancora le famiglie potranno resistere contando quasi esclusivamente solo sul welfare fai da te?