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Viviamo in un Paese in cui spesso la politica, le sue prassi, il suo linguaggio, hanno assunto toni violenti. Occorre reagire all’imbarbarimento della polis. Dalla famiglia ai luoghi in cui ci si prende cura degli altri, è necessario ricostruire una passione e un alfabeto nonviolento della politica

Viviamo in un Paese in cui spesso la politica, le sue prassi, il suo linguaggio, hanno assunto toni violenti.

Dai guelfi e ghibellini, l’agone politico è stato spesso concepito come scontro. Il linguaggio bellico è diventato il linguaggio della politica. Noi e loro. I nostri nemici. Scendiamo in campo. Smascheriamo l’avversario.

Eppure, da Tommaso Moro fino a De Gasperi e a Aldo Moro, a La Pira e a Zaccagnini, non solo pochi coloro che hanno fatto della politica l’arte del confronto, la scuola del realismo e della mitezza.

Oggi assistiamo a un revival (favorito dalla post-verità’ della rete) di toni violenti nel linguaggio e nelle rappresentazioni della politica.

Una violenza mascherata spesso dalle giustificazioni della lotta alla corruzione e della ricerca dell’onestà. Insomma si diventa verbalmente (e non solo) violenti in nome della giustizia, del giusto risentimento verso la dilagante disonestà. E il massimalismo moralistico diventa sovente l’ingrediente fondamentale di molte ricette politiche che si presentano come innovative.

Siamo un paese in cui l’elettorato condivide molti dei difetti della sua classe politica. Premiamo chi promette il cambiamento ma siamo pronti a punire chi lo attua, con tutti i limiti e i condizionamenti che comporta il passaggio dall’ideale al reale.

Quello che manca però è una pedagogia politica che educhi I cittadini al rispetto dell’altro. Se sono molti i politici ad evocare e promuovere gli istinti più violenti, rischiamo di trasformare la politica in anti-politica e di paralizzarne la missione più alta: realizzare il bene comune. Non più l’arte del possibile, ma la richiesta dell’impossibile. Non più la ricerca del male minore o della soluzione più realistica, ma la continua competizione per alzare la posta dello scontro, per conquistare i molti arrabbiati, provocando atteggiamenti di rifiuto degli altri che sono l’esatto contrario di una politica che dovrebbe essere strumento di dialogo e composizione dei conflitti, di ricerca di convergenze e di apertura di nuovi orizzonti di pace, sviluppo e crescita.

Ma un elemento in cui la politica sembra davvero assente è l’attenzione ai poveri, ai più deboli, agli emarginati, alle esigenze delle famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese. E al netto di tanti aspetti complessi su cui sarebbe utile un’opera di discernimento, in fondo, il referendum del 4 dicembre è stato anche l’espressione di un profondo disagio sociale, che non sa che farsene delle riforme se nella sua vita concreta cresce la povertà.

Se dal contesto italiano allarghiamo lo sguardo al pianeta ci troviamo di fronte a terribili episodi di violenza contro la nostra madre terra, la casa comune, con guerre alimentate dai mercanti di armi che mietono migliaia di vittime innocenti e provocano migrazioni apocalittiche. Aleppo è solo l’ultimo scandaloso fenomeno di una lunga serie.

Di fronte a questo scenario il Messaggio della 50ma Giornata Mondiale della Pace (1 gennaio 2017) dal significativo titolo "La nonviolenza: lo stile della politica per la pace" assume un significato davvero speciale.

Con pochi tratti papa Francesco ci pone di fronte alla realtà di una "terza guerra mondiale a pezzi" che provoca sofferenze e devastazioni, alimenta il terrorismo, gli abusi subiti dai migranti, le devastazioni dell’ambiente.

Il papa insiste su una sua profonda convinzione: nessuna religione è terrorista. Anzi la violenza è sempre una profanazione del nome di Dio. Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Non c’è "guerra santa". Solo la pace è santa.

E a supporto della sua riflessione cita quel monumento alla nonviolenza che è la Pacem in Terris di Giovanni XXIII, insieme alle grandi lezioni di pace di Gandhi, Khan Abdul Ghaffar Khan, Luther King, Madre Teresa. Cita anche leader della nonviolenza come Leymah Gbowee, che insieme a migliaia di donne liberiane, attraverso incontri di preghiera e proteste nonviolente (pray-ins), ha favorito la conclusione della seconda guerra civile in Liberia.

Si ferma a riflettere sulla Centesimus Annus di San Giovanni Paolo II che ha scandito un fatto di straordinaria portata: il crollo del moloch sovietico senza spargimento di sangue, la fine di una infausta contrapposizione tra Est e Ovest del mondo (che purtroppo rischia oggi di rinascere) grazie a leader lungimiranti come Gorbaciov e Kohl che hanno saputo adottare una vera politica della riconciliazione e della non violenza.

Dalla politica internazionale, senza soluzione di continuità, Francesco passa a esaminare la causa vera della violenza: il cuore dell’uomo.

E’ la famiglia in primis il luogo dove si percorrono I sentieri della non violenza. E’ la famiglia il luogo in cui si impara la difficile arte del "prendersi cura dell’altro" e dove "i conflitti devono essere superati non con la forza ma con il dialogo". E dalla famiglia è evidente che la pratica della nonviolenza diventa una pratica politica.

E cosi siamo tornati al punto di partenza: la nostra politica malata.

Altro che disintermediazione. Il referendum ci consegna un altro insegnamento. Occorre moltiplicare i luoghi di vera e efficace mediazione politica. E questi luoghi non possono ridursi ai social media. Ma devono tornare "on the road". Sulle strade, sulle piazze, nelle reti sociali di cura. Senza partire dal sociale la politica si riduce a play station. Dove con un clic decido chi farà il candidato sindaco di Roma e con un altro cancello un leader politico che mi sta antipatico.

Davvero occorre reagire all’imbarbarimento della polis. Dalla famiglia ai luoghi in cui ci si prende cura degli altri e si cresce come comunità, occorre ricostruire una passione e un alfabeto nonviolento della politica. Ma anche rinnovati luoghi di efficace selezione della classe dirigente. Per essere costruttori di pace e di dialogo, accogliendo e costruendo relazioni di prossimità.

D’altra parte le più belle pagine della grande storia dell’impegno dei cattolici in politica sono state scritte proprio quando, durante il non expedit e prima del patto Gentiloni (1915), non potendo votare nè essere votati, si promuovevano reti di protezione sociale, iniziative cooperative e mutualistiche che hanno dato all’Italia il volto di paese accogliente e solidale. Un volto da recuperare. Riconciliando il sociale con la politica. E soprattutto puntando sulla formazione di una coscienza sociale. Senza coscienza sociale è difficile far politica in modo non violento. E la dottrina sociale della Chiesa con i suoi 4 principi fondamentali (dignità della persona, solidarietà, sussidiarietà, bene comune) resta un ingrediente essenziale per ogni processo di formazione politica. Sapendo che non stiamo parlando di astruse teorie, ma di un’azione sociale che si nutre e si ispira ad un pensiero sociale. Altrimenti si cade nei due limiti dell’attivismo e dell’intellettualismo. E tra I tanti limiti del nostro tempo c’è proprio la caduta della capacità di fare "opere sociali". Alle volte ci accontentiamo di fare gli spettatori delle lotte tra galli che sembrano ormai diventati i nostri talk show politici. Che se uno scopo hanno è proprio quello di coltivare un insano gusto per la violenza.

Davvero la nonviolenza è la cura per un mondo frantumato e per una politica che ha perso l’anima.
"Chi accoglie la buona notizia di Gesù – ci ricorda papa Francesco – sa riconoscere la violenza che porta in se’ e si lascia guarire dalla misericordia di Dio, divenendo a sua volta strumento di riconciliazione"

E allora davvero, piuttosto che una politica urlata e violenta, potremmo scoprire la profonda verità del primato dell’unità sul conflitto.

Beninteso, il conflitto è il sale della democrazia. Ma non si vive di conflitto. E la politica deve essere capace di unire un Paese e di costruire un futuro di pace e di sviluppo.

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