A suo avviso gli italiani si sentono un popolo? Che valutazione dà del rapporto tra popolo italiano e democrazia? Il populismo è l’unica via possibile per rispondere alle esigenze del popolo, per superare lo scollamento tra politica e cittadini?
Sarebbe banale dire che gli italiani si sentono un popolo solo quando gioca la nazionale di calcio, anche se questa è un’impressione diffusa. In realtà, credo che gli italiani – se non tutti, una gran parte – sentano di appartenere ad una precisa collettività nazionale ogni volta che, che si tratti di caratteristiche a cui si dà un significato positivo oppure che si interpretano come difetti, si sentono diversi dagli altri. E questo succede spesso, sia quando si riproduce in un modo o nell’altro il sentimento tanto discusso degli “italiani brava gente”, sia quando ci si sente portatori di vizi atavici e insradicabili, interpretando come un marcatore di identità, in negativo, la corruzione dei politici, la mafia, la camorra e così via.
Quel che manca agli italiani, in genere, è la coscienza di un cammino, e di un destino, comune verso una meta. È l’effetto del senso di colpa per quel che è accaduto quando, nel periodo fra le due guerre mondiali, un ambizioso destino collettivo era stato proposto ed imposto dall’alto. Il crollo del fascismo ha gettato un’ombra pesante sull’orgoglio nazionale, e per riflesso sulla rivendicazione di un carattere specifico del proprio popolo che potesse esservi connesso. Si è affermata la convinzione di dover dipendere da altri per garantirsi un avvenire sereno. Il condominio bipolare del mondo ha fornito il quadro adatto allo sviluppo di questa psicologia, orientando le speranze di taluni verso gli Stati Uniti e l’atlantismo e di altri verso l’Unione Sovietica. L’europeismo si è posto, in questo contesto, come una “terza via”, completando lo scenario. Anche la democrazia è stata interpretata come un meno peggio, una via di scampo dai disastri del passato, più che come uno strumento di affermazione della volontà popolare.
La delega ai partiti è stata perciò amplissima, malgrado le evidenti disfunzioni che l’assetto partitocratico determinava, e il ricorso al referendum è apparso spesso come un fastidio, con l’unica eccezione di temi che incidevano a fondo sulla vita quotidiana. Soltanto le vicende legate a Tangentopoli hanno trasformato il mugugno in dichiarata voglia di cambiare pagina. Ed è da quel momento che la mentalità populista, che era rimasta sottotraccia per decenni dopo gli episodi del qualunquismo e del laurismo, ha ripreso vigore, un po’ in tutti i settori della scena politica. Si è espressa sotto la forma prevalente della protesta perché fra le formazioni politiche tradizionali nessuna sembrava volersi far carico delle rivendicazioni dell’“uomo della strada”. Ancora oggi, in diverse declinazioni, il populismo sembra l’unico veicolo per far sentire “in alto” quel che si pensa, si teme, si sente e si soffre “in basso”. Il disprezzo in cui è tenuto dai politici di professione, che paiono più interessati ad attutirne l’impatto che a rispondergli sul terreno delle scelte concrete, non fa che peggiorare la situazione di distacco fra i cittadini e le istituzioni. Spesso, ormai, i primi e le seconde viaggiano su logiche diverse: l’incomunicabilità su temi come l’immigrazione o le politiche in materia di finanza sta a dimostrarlo.
Lei studia da più di vent’anni il fenomeno del populismo. Ha dedicato quattro numeri della rivista “Trasgressioni”, da lei diretta, a questo fenomeno e il libro Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo del 2015, che ha rivisto e ampliato un suo precedente lavoro. Quale percorso ha condotto la politica italiana, dopo settant’anni di esperienza democratica repubblicana, a impregnarsi di dosi così forti di populismo? Che forme sta manifestando questo fenomeno? Come sta mutando?
In primo luogo, va notato che l’espansione della presenza politica del populismo, che ancora una dozzina di anni fa sembrava concentrata in pochi paesi, fra i quali l’Italia appariva a vari studiosi come un suo “laboratorio” o addirittura come il suo “paradiso”, oggi ha raggiunto dimensioni notevoli in gran parte dell’Europa. Il che dimostra che non ci sono ragioni ataviche, riconducibili a presunte “tare” del carattere nazionale della sua popolazione, per spiegarne la diffusione in casa nostra.
Bisogna invece guardare, per capire le tappe del processo di impregnazione cui lei accenna, all’incapacità del ceto politico professionale e delle istituzioni sia burocratiche che rappresentative di affrontare e risolvere i problemi che più stanno a cuore alla gente comune, che è poi quella che costituisce il grosso dell’elettorato. Il successo folgorante, seppur effimero, dell’Uomo Qualunque nell’immediato dopoguerra è, da questo punto di vista, molto significativo, perché fornisce la chiave interpretativa per comprendere le successive incarnazioni della mentalità populista. Perché Giannini trovava ascolto e condivisione? Perché denunciava alcuni difetti reali degli uomini politici di professione – gli Upp, come li chiamava per additarli al disprezzo popolare – che non si sono mai estinti, e forse nemmeno attenuati: l’autoreferenzialità, l’ipocrisia, la disponibilità ad ogni forma di corruzione, l’arroganza data dalla convinzione di appartenere ad uno status superiore, i privilegi, il linguaggio oscillante fra la demagogia più sfrontata e lo specialismo più criptico, l’inclinazione al clientelismo, la tendenza ai patti sottobanco e ai cambi di bandiera, l’indifferenza ai timori e alle preoccupazioni sentiti dalle fasce sociali meno protette e organizzate, i legami troppo stretti con i potentati, specialmente (ma non solo) quelli economico-finanziari. A oltre sessantacinque anni dal tramonto dell’esperienza qualunquista, quei problemi sono rimasti in piedi e costituiscono un potente carburante per le indignazioni e le rivendicazioni populiste. Ogni volta che si è messo mano, con maggiore o minore convinzione, al repertorio populista, si sono ottenuti risultati.
Nel mio libro, ho cercato di dimostrarlo nel dettaglio, compiendo un percorso che va da Guglielmo Giannini e Achille Lauro fino a Beppe Grillo, passando per le esternazioni di Pannella e quelle di Cossiga, la Rete di Leoluca Orlando e le vicende di Antonio Di Pietro, il mito della società civile cavalcato da Berlusconi, l’“antipolitica positiva” dei Girotondi e il leghismo. Non in tutti questi soggetti la mentalità populista si è incarnata con eguale forza e genuinità; talvolta è stata tradotta in una semplice cifra stilistica – quella cui anche Matteo Renzi attinge molto spesso –, ma in ogni caso ha pesato e continua a pesare. La sua maggiore novità è il tentativo che oggi se ne fa, soprattutto da parte del M5S, attenuandone alcuni caratteri, di usarla come base di sostegno per una prassi di governo. Resta da vedere se il tentativo riuscirà e se non snaturerà il fenomeno, creando un effetto boomerang.
Il populismo è al centro del dibattito culturale e politico. Oltre alle esperienze latino-americane, nascono e si sviluppano movimenti populisti anche in Europa. Come interpreta questi fenomeni? Quali caratteristiche stanno assumendo?
Come ha ben scritto il politologo francese Dominique Reynié, quello che attualmente ha successo è un “populismo patrimoniale”, che guarda contemporaneamente a due patrimoni popolari che vede minacciati ed intende contribuire decisivamente a conservare. Da una parte c’è il livello di vita, che le politiche liberiste e di “austerità” sostenute fortemente dall’Unione Europea hanno compresso soprattutto in alcune fasce sociali che, non a caso, stanno riversando in massa i propri consensi sui partiti populisti: in primo luogo gli operai, ma anche i pensionati e una parte del ceto medio, fatta di commercianti, artigiani e piccoli imprenditori. Dall’altra parte c’è il modo di vita, quell’insieme di tradizioni e abitudini che nelle società multietniche e multiculturali è messo a repentaglio da una sempre più frequente convivenza con persone che, per formazione culturale, sociale e religiosa, esibiscono comportamenti estranei alla mentalità degli indigeni. Coniugando questi due versanti, e aggiungendovi la abituale polemica contro la corruzione dei politici e la farraginosità ed opacità dei processi di mediazione delle istituzioni, i movimenti populisti hanno campo aperto.
Come uscire dalla deriva populista? Quali strade è possibile percorrere per ridare sostanza alle istituzioni democratiche e per rigenerare la democrazia rappresentativa? La società civile – che nella prospettiva populista ha un spazio residuale – che ruolo può giocare?